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Calvarese racconta: "Una volta un tifoso scavalcò la recinzione per insultarmi e spingermi"

Calvarese racconta: "Una volta un tifoso scavalcò la recinzione per insultarmi e spingermi"TUTTO mercato WEB
© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport
martedì 8 aprile 2025, 18:53Serie A
di Alessio Del Lungo

Gianpaolo Calvarese, ex arbitro di Serie A, ha affidato alle colonne de Il Tempo un suo pensiero sulla violenze sui direttori di gara, raccontandone una subita da lui: "[...] ero stato designato per una partita del campionato giovanile. Campo di periferia, terreno polveroso, spalti quasi vuoti, se non fosse per qualche genitore presente a bordo campo. La partita scorreva in modo teso, nervoso. A metà secondo tempo un contatto in area: fischio un rigore. Una decisione limpida, senza esitazioni. Ma è bastato quel fischio per far saltare ogni equilibrio".

Calvarese racconta quello che accadde dopo quell'evento: "Dalla tribuna si alza un urlo. Un uomo – il padre di un giocatore – comincia insultarmi. Prima con parole pesanti, poi con gesti. In pochi istanti scavalca la recinzione e corre verso di me. Ricordo i battiti del cuore accelerare, le gambe che tremavano, ma non potevano permetterselo. Era una situazione surreale, eppure vera. Si ferma a pochi centimetri da me. Mi urla in faccia, mi spinge. Nessuno interviene. Né l’allenatore, né i dirigenti, né gli altri genitori. In quel momento ero solo. Ero un ragazzo con un fischietto in mano, e davanti avevo un adulto fuori controllo. Non ci furono ferite fisiche, ma dentro qualcosa si era rotto".

Così Calvarese cerca di far capire cosa ha provato: "E quella ferita invisibile mi ha accompagnato a lungo. Ho pensato di mollare. Di tornare a fare il tifoso, almeno nessuno mi avrebbe minacciato. Ma non l’ho fatto. Perché ho capito che dietro ogni divisa c’è una persona. Che l’arbitro non è un nemico, ma parte del gioco. Che nessuno dovrebbe subire violenza – verbale o fisica – solo per aver fatto ciò che gli compete. E ho capito anche che il vero problema non è il singolo gesto, ma la cultura che lo giustifica, l’indifferenza che lo tollera, il silenzio che lo copre. Oggi, dopo più di 500 partite tra i professionisti, dopo aver calcato i campi più importanti d’Italia, posso dire con forza: non è normale quello che accade ogni weekend sui campi dilettantistici e giovanili. Non è normale che un ragazzo venga aggredito per una decisione. Non è normale che si accetti la violenza come sfogo. E non basta più indignarsi il giorno dopo. Bisogna agire. Serve protezione, educazione, cultura sportiva. Nonostante il presidente Gravina abbia inasprito le pene e stia facendo il possibile per cercare di eliminare questo fenomeno, credo che tutti insieme abbiamo l'obbligo di fare un salto culturale. Serve ricordare che ogni arbitro è prima di tutto una persona. Come lo ero io, quel giorno, a diciassette anni, con addosso solo il coraggio di chi ama questo sport".

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