Calvarese racconta: "Una volta un tifoso scavalcò la recinzione per insultarmi e spingermi"

Gianpaolo Calvarese, ex arbitro di Serie A, ha affidato alle colonne de Il Tempo un suo pensiero sulla violenze sui direttori di gara, raccontandone una subita da lui: "[...] ero stato designato per una partita del campionato giovanile. Campo di periferia, terreno polveroso, spalti quasi vuoti, se non fosse per qualche genitore presente a bordo campo. La partita scorreva in modo teso, nervoso. A metà secondo tempo un contatto in area: fischio un rigore. Una decisione limpida, senza esitazioni. Ma è bastato quel fischio per far saltare ogni equilibrio".
Calvarese racconta quello che accadde dopo quell'evento: "Dalla tribuna si alza un urlo. Un uomo – il padre di un giocatore – comincia insultarmi. Prima con parole pesanti, poi con gesti. In pochi istanti scavalca la recinzione e corre verso di me. Ricordo i battiti del cuore accelerare, le gambe che tremavano, ma non potevano permetterselo. Era una situazione surreale, eppure vera. Si ferma a pochi centimetri da me. Mi urla in faccia, mi spinge. Nessuno interviene. Né l’allenatore, né i dirigenti, né gli altri genitori. In quel momento ero solo. Ero un ragazzo con un fischietto in mano, e davanti avevo un adulto fuori controllo. Non ci furono ferite fisiche, ma dentro qualcosa si era rotto".
Così Calvarese cerca di far capire cosa ha provato: "E quella ferita invisibile mi ha accompagnato a lungo. Ho pensato di mollare. Di tornare a fare il tifoso, almeno nessuno mi avrebbe minacciato. Ma non l’ho fatto. Perché ho capito che dietro ogni divisa c’è una persona. Che l’arbitro non è un nemico, ma parte del gioco. Che nessuno dovrebbe subire violenza – verbale o fisica – solo per aver fatto ciò che gli compete. E ho capito anche che il vero problema non è il singolo gesto, ma la cultura che lo giustifica, l’indifferenza che lo tollera, il silenzio che lo copre. Oggi, dopo più di 500 partite tra i professionisti, dopo aver calcato i campi più importanti d’Italia, posso dire con forza: non è normale quello che accade ogni weekend sui campi dilettantistici e giovanili. Non è normale che un ragazzo venga aggredito per una decisione. Non è normale che si accetti la violenza come sfogo. E non basta più indignarsi il giorno dopo. Bisogna agire. Serve protezione, educazione, cultura sportiva. Nonostante il presidente Gravina abbia inasprito le pene e stia facendo il possibile per cercare di eliminare questo fenomeno, credo che tutti insieme abbiamo l'obbligo di fare un salto culturale. Serve ricordare che ogni arbitro è prima di tutto una persona. Come lo ero io, quel giorno, a diciassette anni, con addosso solo il coraggio di chi ama questo sport".
