Pietro Maiellaro, il Maradona del Tavoliere
Pietro Maiellaro era un istintivo.
Uno nato per giocare la palla. Tanto da vagabondare per il campo alla sua ricerca. E una volta raccolta sentirsi il padrone. Libero di scegliere tra la soluzione geniale dell’assist o un’azione individuale. A far passare la sfera tra un piede e l’altro come se quella fosse la sua casa.
Sempre in quella terra di nessuno dove si agita il talento. Tra il centrocampo e l’attacco. La zona del genio. A prendere palla e ad inventare come fa un pittore di fronte alla tela bianca.
Molto spesso refrattario a difendere. Come non conoscesse il senso del distruggere, ma solo quello dell’inventare. O forse perché la sregolatezza è una caratteristica essenziale della creatività. Con l’istintività del genio.
Quasi anarchico in campo. Soggetto solo alla sua voglia di creare. Di non soggiacere ad altra regola che non fosse assecondare la sua fantasia.
Pietro nasce nel 1963 a Candela, in Puglia.
Provincia di Foggia, per la precisione.
A metà degli anni novanta ha svolto il CAR (Centro addestramento reclute) a Barletta, in zona, dopo un fugace passaggio in quel di Potenza, in Basilicata.
Barletta è sul mare, mentre Candela – come Foggia- è sita nell’entroterra.
Bei posti, dove di mangia divinamente e ove la natura ha fatto davvero un lavoro con i fiocchi.
W l’Italia.
Tutta.
Pietro riesce ad abbinare sin da piccolo entrambe i piaceri succitati: adora il buon cibo e ama godersi i paesaggi circostanti, soprattutto se nei dintorni vi è un pallone da calcio.
Chi lo vede palleggiare e calciare giura che il ragazzo ha un avvenire dinanzi a sé.
Ed in effetti è ancora giovanissimo allorquando viene aggregato alle giovanili del Lucera, che in quegli anni lotta per vincere il campionato di Promozione e raggiungere il livello semi-professionistico.
Maiellaro è sin da subito il migliore, tra i suoi pari età.
In campo fa la differenza e con dribbling ubriacanti e lanci millimetrici ruba la scena e si mette in mostra come un prospetto destinato a platee di ben altra levatura.
A sedici anni inizia ad allenarsi con la prima squadra e poco dopo viene aggregato alla rosa del Lucera, che da un biennio è sbarcato in serie D.
Non è neppure maggiorenne quando conquista il posto da titolare e segna una decina di reti, giocando con continuità in un torneo tecnicamente non eccelso ma agonisticamente tosto.
Le qualità di Pietro Maiellaro non passano inosservate ed una segnalazione giunge al celeberrimo commendatore d’Irpinia, alias Antonio Sibilia, presidente dell’Avellino e personaggio tanto folcloristico nei modi quanto competente di calcio nella sostanza.
Don Antonio, come spesso usa fare, si reca personalmente a visionare il giocatore.
L’occasione è propizia, in quanto è prevista una amichevole tra Avellino e Lucera in cui, manco a dirlo, Maiellaro è il migliore in campo dei suoi.
Sibilia, astuto come una volpe, non si fida e vuole la controprova.
Organizza così un provino per il giovane fantasista.
Un quarto d’ora di tocchi felpati e scatti brucianti ed il commendatore è innamorato cotto di quel ragazzino sfrontato ed estroso.
La firma del contratto è diretta conseguenza di ciò, sebbene il pugliese non trovi da subito spazio in una compagine solida e compatta, che fa del Partenio il bunker nel quale raccogliere più punti possibile per agguantare la salvezza.
Inizialmente Maiellaro, come normale che sia, paga il salto dai dilettanti alla massima divisione nazionale, oltre che il “”peso” dei cento milioni di lire del costo del suo cartellino.
Pian piano inizia a carburare e si diverte nella Primavera dei campani -guidata da Caramanno- vincendo la Coppa Italia di categoria, sfiorando lo Scudetto e facendo faville nel noto torneo di Viareggio, prima di essere mandato in prestito a Varese, in serie B, agli ordini dell’allenatore Fascetti.
In Lombardia il funambolo fa esperienza e colleziona una quindicina di presenze, quasi tutte da subentrante, condite da una rete messa a segno -ovvio- contro il Foggia.
Torna quindi ad Avellino, con l’allenatore Veneranda che lo lancia nella mischia facendolo esordire in serie A contro il Catania, al posto dell’attaccante esterno Bergossi, salvo poi richiamarlo in panchina poco dopo, inserendo l’ala Bertoneri.
Alla scelta del cambio ragioni di ordine tattico e, anche, di ordine comportamentale.
Evidentemente Veneranda, tecnico preparato e molto attento alla disciplina, ha notato in Pietro qualche atteggiamento che non gli è garbato.
Nelle gare successive con Lazio e Sampdoria disputa spezzoni di match, salvo poi ritrovarsi titolare contro il Verona.
Altre due presenze con Roma e Pisa, prima della sosta invernale: poi soltanto panchina e tribuna, sino a fine stagione.
Maiellaro è il pupillo di Salvatore Di Somma, libero e capitano dei Lupi Biancoverdi.
Anche Veneranda lo tiene molto in considerazione, ma l’inizio stagione degli irpini è parecchio altalenante e a fine novembre al suo posto arriva Ottavio Bianchi che, volente o nolente, è costretto ad affidarsi a calciatori più esperti, per mantenere la categoria.
L’impresa riesce e a fine anno Bianchi firma per il Como, venendo sostituito dall’italo-argentino Angelillo, reduce da ottime stagioni trascorse in quel di Arezzo.
Pietro Maiellaro non è ritenuto indispensabile ed il ritiro dall’attività di Di Somma e l’assenza forzata di Sibilia, in altre faccende affaccendato, velocizzano la pratica di cessione del fantasista al Palermo, appena retrocesso in terza serie, che ha allestito una rosa di notevole pregio per tentare la pronta risalita.
Nonostante alcune vicissitudini societarie (la morte per mano della mafia del presidente Parisi, in primis) i rosanero centrano la promozione, finendo secondi alle spalle del Catanzaro.
L’allenatore, il mitico Tom Rosati, al termine dei festeggiamenti viene ricoverato per un male che già nell’arco della stagione aveva fatto capolino e che esplode rovinosamente in estate, portandolo a spegnersi poco dopo.
In Sicilia Maiellaro gioca sostanzialmente da centrocampista puro e con buona continuità di rendimento.
La sensazione è che possa rendere maggiormente in fase realizzativa, disponendo di un buon calcio, forte e preciso.
Debbono pensarla in questo modo anche a Taranto, datosi che i dirigenti rossoblù riportano “in patria” il calciatore, non fosse altro che per ripetere l’avventura palermitana, cercando di ricondurre i pugliesi in B dopo aver patito una bruciante retrocessione.
A volerlo è innanzitutto proprio Rosati, accordatosi con gli ionici prima che il male incurabile ne stroncasse i sogni e le ambizioni.
Il suo successore, il bravo Renna, riesce a condurre il porto la nave, anche grazie alle reti del bomber D’Ottavio ed alle giocate del suo partner d’attacco Paolucci, entrambi ispirati da un Maiellaro formato assist man e capitano/condottiero, assolutamente immarcabile quando è in giornata di grazia.
Il pubblico lo adora, i compagni lo stimano, gli avversari lo temono: siamo pur sempre tra il secondo ed il terzo livello del calcio italiano, ma parrebbe essere nata una stella.
L’annata successiva vede il Taranto affrontare Napoli, Cesena, Vicenza, Lazio e Spal, in Coppa Italia.
Il 5-0 subito nell’ultimo match dai romani non lascia adito a dubbi sull’esito del confronto, mentre col Napoli arriva una onorevole sconfitta (0-1).
La vittoria col Lanerossi Vicenza (1-0) e l’altra sconfitta nell’incontro col Cesena (0-1), oltre al pareggio a reti bianche con la Spal, certificano l’eliminazione degli uomini di Renna dalla competizione.
In campionato i pugliesi traballano e l’allenatore salta, sostituito da una vecchia conoscenza di Maiellaro, Veneranda.
A fine stagione i pugliesi sono costretti agli spareggi per evitare la caduta in C.
Sul campo neutro di Napoli si affrontano Lazio (penalizzata di nove punti ad inizio torneo, per la vicenda del Totonero-bis), Campobasso e, appunto, Taranto.
Un triangolare drammatico e coinvolgente, di una intensità devastante.
Il caldo immane che fa da contorno alla battaglia è indicativo del clima infuocato che si respira sul terreno di gioco, peraltro al termine di una annata massacrante.
Il Taranto piega la Lazio con una rete -in probabile fuorigioco- di De Vitis (1-0) ed impatta per 1-1 col Campobasso, salvandosi insieme alla stessa Lazio che batte per 1-0 i molisani, condannandoli alla retrocessione.
Maiellaro, assente con i biancocelesti per squalifica, è titolare col Campobasso e contribuisce ad una soffertissima salvezza, disputando una buona stagione che lo sottopone alle attenzioni di parecchie società di A e di B.
Il Maradona del Tavoliere, come viene baldanzosamente soprannominato dai suoi tifosi, vince il premio di miglior giocatore dell’anno in cadetteria ed è pronto al salto in una piazza importante, per quanto a Taranto si trovi da Dio, a due passi da casa sua ed in un ambiente che lo coccola e lo vizia.
Le offerte non mancano, come detto.
Anche dalla categoria superiore, in realtà.
Il problema è che la migliore arriva dalla vicina Bari.
La rivalità tra le tifoserie è molto accesa: “ovunque , ma non lì”, gridano i fans ionici, avvelenati all’idea che il loro pupillo faccia le valigie e si sposti proprio nel capoluogo di regione.
Il Bari, allenato da Catuzzi, formula la sua offerta per bocca del presidente Matarrese: due miliardi cash, con eventuale aggiunta di moneta sonante per prendere pure la prolifica punta De Vitis.
Il Taranto versa in brutte acque, dal punto di vista economico.
Il presidente Fasano tiene duro e rifiuta l’offerta, chiedendo ben otto miliardi di lire per il suo duo delle meraviglie.
Si inseriscono Atalanta, Lazio, Udinese, Sampdoria, Fiorentina e Roma, a vario titolo, sia per De Vitis che per Maiellaro.
Quest’ultimo ad un certo punto pare vicinissimo alla Lazio, ma è un blitz del Bari a chiudere i conti: oltre ai due miliardi in contanti i galletti mettono sul piatto altri trecento milioni e pure i cartellini del centrocampista Roselli e del laterale Gridelli, il secondo già in forza ai tarantini in prestito.
Fasano vacilla ed infine, a malincuore, cede.
De Vitis resta al Taranto e Pietro Maiellaro, con l’immancabile definizione di traditore a corredo, trasloca a Bari.
Con i biancorossi Maiellaro resta per ben quattro stagioni, riuscendo per la prima volta in carriera a soffermarsi per più di due anni nel medesimo posto.
E la infiamma, la piazza barese.
Eccome, se la infiamma.
Un’annata di assestamento, con un settimo posto finale nonostante la presenza in squadra degli inglesi Cowens e Rideout.
Poi l’esplosione, con Pietro che gioca divinamente e trascina i suoi in serie A, primo posto a pari merito col Genoa di Scoglio.
I pugliesi sono allenati da Salvemini, mentre in campo ci sono ottimi elementi come Di Gennaro, Bergossi, Monelli, Carrera, Perrone, Lupo, Mannini ed altri ancora, a corroborare il già valido nucleo dei “locali”: G. Loseto, De Trizio, Armenise, Terracenere,
Un Bari coriaceo e grintoso, che lo Zar -lui- Maiellaro guida in campo con dei lampi di assoluta classe.
E continua a farlo pure in A, dove in coppia col neo-acquisto brasiliano Joao Paulo regala spettacolo e punti al suo team, che si salva con largo anticipo e mette in bacheca il primo -e per ora unico- trofeo internazionale della propria storia, la Mitropa Cup, sconfiggendo in finale quel Genoa (1-0, ma Pietro è assente) col quale aveva condiviso la vetta della graduatoria di serie B, nella stagione precedente.
Nel torneo 190-91 il Bari trasloca dallo Stadio della Vittoria al nuovo San Nicola, costruito per i Mondiali di Italia 90.
Il veloce ma poco concreto rumeno Răducioiu, centravanti prelevato dalla Dinamo Bucarest, si unisce a Maiellaro e Joao Paolo nel tentativo di scardinare le difese avversarie.
La rosa abbonda di tigna, con qualche lacuna tecnica alla quale il buon Salvemini sopperisce organizzando una fase tattica accorta e guardinga.
Il Bari si salva, seppur con qualche patema, grazie soprattutto alle invenzioni del suo funambolo, Pietro Maiellaro.
In estate i pugliesi mettono in scena una vera e propria rivoluzione.
Tra i molti movimenti sono da segnalare l’acquisto del forte inglese Platt, dall’Aston Villa e l’arrivo in prestito dal Milan (via Dinamo Zagabria) del promettente croato Boban.
Calciatori di qualità, senza alcun dubbio.
Però i troppi cambiamenti non sortiscono l’effetto sperato, finendo piuttosto per confondere le idee a Salvemini, esonerato ad inizio campionato e sostituito da quel Boniek che è una sentenza, in pratica.
Annata fallimentare e conseguente retrocessione, per i galletti.
Pietro Maiellaro non ha colpe nel crollo, in quanto ha già salutato la compagnia nel calciomercato estivo, finendo coinvolto nel marasma generale tra acquisti e cessioni.
Lo cerca il Napoli, orfano di Maradona e, in quei giorni, intenzionato a comprare tutti i trequartisti presenti sul mercato (Dell’Anno, Detari, etc.).
D’altronde lo stesso Re Diego aveva consigliato mesi prima ai suoi dirigenti di attenzionare quel centrocampista offensivo tutto pepe, dopo averlo affrontato dal vivo e, con la sua nota umiltà, averne tessuto le lodi a fine gara, complimentandosi de visu con l’emozionatissimo lucerino.
Per oltre quattro miliardi di lire lo prende invece la ambiziosa Fiorentina della famiglia Cecchi Gori, allenata dal brasiliano Lazaroni.
Batistuta, Dunga, Mazinho, Borgonovo: rosa interessante, ma forse con troppi doppioni.
Lazaroni è esonerato prima di subito, però neanche col suo successore, il sergente di ferro Radice, la Fiorentina riesce a decollare.
Andrà peggio l’anno dopo, con una cocente retrocessione in serie B.
Maiellaro, anche in questo caso, non ha demeriti nella caduta negli inferi.
In riva all’Arno è rimasto soltanto per una stagione dove, questo sì, non ha brillato affatto.
Il suo canto del cigno, nel calcio che conta.
A nemmeno trent’anni di età viene ritenuto bollito o, quantomeno, non adeguato a certi livelli.
L’occasione della vita è ita e Maiellaro, si può dire, non se l’è giocata come avrebbe dovuto.
Pietro è stato un calciatore di grandissima tecnica individuale e di sublime talento, in grado di infiammare le piazze e regalare emozioni e brividi ai tifosi.
Meridionale di natali e di indole, verace e smaliziato, probabilmente perfetto per quei campi di provincia infuocati e dalle atmosfere nevrotiche, figlie di un calcio che ormai sembra lontano anni luce, oggi quasi trasformatosi in un altro sport, rispetto a quello -appunto- degli anni 70, 80 e 90.
Rifinitore estroso, trequartista di assoluta qualità e fantasista genialoide, Maiellaro è stato uno di quegli elementi che, pur agendo da centrocampista puro e non solo dietro le punte, per intenderci, è riuscito ad abbinare giocate vincenti a reti di pregevole fattura.
Destro al fulmicotone, sinistro adeguato allo scopo.
Visione di gioco egregia e dribbling ubriacante.
Alcune sue reti restano nella memoria degli appassionati per spettacolarità di calcio e/o forza dirompente della percussione.
Buon rigorista, pericoloso tiratore di punizioni ed angoli.
La stoffa del leader, prodezze balistiche a profusione, talvolta addirittura regia lucida ed ispirata: ma anche parecchi limiti caratteriali a corredo.
Inoltre la fase difensiva è spesso un optional, gli scatti di nervi sono troppo frequenti per un giocatore che ambisce al Top ed in molti contesti ove non è considerato il numero 1, quando non è coccolato e protetto come vorrebbe, ecco la tendenza ad appassirsi, abbassare la guardia, calare di tono.
Professionista serio, eh.
Troppo umorale, però, per poter essere considerato un campione con la maiuscola.
Amatissimo dai tifosi e, nel contempo, da tutti loro visto come un potenziale fuoriclasse, non del tutto espresso.
Quale, in effetti, è stato.
Negli anni di Bari rischia la convocazione in Nazionale.
Azeglio Vicini, all’epoca C.T., lo conosce da quando il lucerino faceva parte della Nazionale Militare e ci pensa.
Roberto Baggio, Mancini, Zola: le alternative, nel ruolo, sono da infarto.
Maiellaro è un centrocampista universale e potrebbe trovare spazio in rosa, magari non solo come mezzapunta.
La discontinuità ad alti livelli -e qualche infortunio di troppo- toglie il tecnico dall’imbarazzo e chiude a Pietro il cassetto tricolore con dentro tutti i suoi sogni di gloria.
La Fiorentina aveva provato a liberarsene già dopo pochi mesi dal suo acquisto, nel calciomercato invernale, dopo aver preso atto di una certa incompatibilità tattica con altri elementi della rosa, in primis Massimo Orlando.
Il Lecce, interessato ai servigi del fantasista pugliese, ha proposto dapprima il prestito gratuito, poi l’acquisto in comproprietà per un miliardo e mezzo in totale.
Troppo poco, per un giocatore pagato oltre quattro miliardi appena pochi mesi prima.
Nell’estate del 1992 è la Ternana (appena promossa in B) ad assicurarsi il fantasista di Lucera.
Due miliardi e mezzo e parte del lauto ingaggio di Pietro in carico ai gigliati, la proposta degli umbri.
La Fiorentina accetta e si libera di un problema andando incontro, come detto, a parecchi altri.
I rossoverdi ingaggiano anche Taglialatela, Evangelisti e Tovalieri, puntando dichiaratamente al salto di categoria.
Ma basta un accertamento fiscale a far emergere una realtà allarmante: casse vuote e debiti pesanti.
I nuovi acquisti tornano al mittente e la squadra dapprima retrocede, poi fallisce.
Pietro Maiellaro è di nuovo sul mercato e, dopo un rapido abboccamento col Napoli non andato a buon fine (non era proprio destino, insomma), finisce per accordarsi col Venezia di Zamparini, con Zaccheroni in panchina.
Stagione poco brillante, sia per i lagunari che per il giocatore, che in estate non viene riscattato dai veneti e passa a titolo definitivo al Cosenza, sempre in B, che trova la quadra con la Fiorentina per il suo cartellino.
Ambiente caldo e ritorno al sud che profuma di gioia, con Maiellaro che disputa una super annata.
Il Cosenza per metà campionato bazzica in zona promozione, prima di crollare nel girone di ritorno e chiudere con una salvezza acquisita proprio grazie all’ampio margine di punti conquistati in precedenza.
Pietro Maiellaro, a fine anno, viene ceduto al Palermo.
Un ritorno per lui, con un buon torneo giocato con la maglia rosanero ed una salvezza, in B, conseguita senza troppi problemi.
Una chiamata romantica da Avellino non sortisce gli effetti sperati, poiché il Palermo non è disposto a lasciarlo partire gratuitamente.
Invece va a buon fine una proposta esotica dal Messico, precisamente dal Tigres UANL, che convince Pietro Maiellaro a prendere un volo transoceanico.
Qualche mese, con un buon ambientamento ed una Coppa del Messico in bacheca, poi la nostalgia prende il sopravvento ed il pugliese torna nel bel paese firmando per il Benevento, in C2, dove perde la finale play-off contro la Turris.
La parabola discendente continua nel Campobasso, tra i dilettanti, con Maiellaro che firma un biennale.
Prima stagione sfortunata, conclusa al secondo posto dietro al Giugliano in campionato ed in finale nella Coppa Italia Dilettanti, persa con i toscani della Larcianese.
Parziale consolazione la vittoria della Coppa Italia di categoria, per il CND.
Nella stagione successiva ancora un secondo posto, in campionato, dietro al Lanciano, senza ulteriori soddisfazioni nelle competizioni parallele.
Maiellaro, che nel frattempo ha iniziato a fare praticantato da allenatore, superate le trentasei primavere e complice qualche acciacco di natura fisica, si convince ad appendere gli scarpini al chiodo.
Dopo il Campobasso allena la Primavera del Bari, poi per una quindicina d’anni guida diverse compagini pugliesi che militano nei tornei dilettanti.
Dal 2020 si occupa del Lucera, nel ruolo di Direttore Generale.
Ricordo nitidamente la figura di Pietro Maiellaro, anarchico funambolo nel meraviglioso calcio che fu.
Uno dei pochi centrocampisti in grado, quando in giornata, di giostrare a trecentosessanta gradi nella metà campo avversaria, penetrando tra le linee nemiche come un coltello nel burro.
E quei tiri con parabole arcuate ed imprevedibili per i portieri avversari, destinati a doversi chinare per raccogliere la sfera nel sacco.
Un numero 10 per certi versi atipico e, nel contempo, per altri versi “classico”.
Alla Lazio ed al Napoli avrebbe potuto trovare la sua dimensione più consona, probabilmente.
A Firenze anche, in teoria.
In pratica, pure per il caos tecnico che all’epoca ammantò la società gigliata, non andò così.
Purtroppo.
Pietro Maiellaro: lo Zar.
(di Claudio Corcione V74)