Morte di Rino Tommasi: il ricordo di Andrea Scanzi sul Fatto Quotidiano
Rino Tommasi è morto l'8 gennaio 2024 a Roma, e la prima cosa che bisogna a tutti i costi evitare – ancor più se si parla di lui – è la retorica.
Tommasi era uomo di statistiche e raziocinio: come ha scritto la pagina Facebook “La Ragione di Stato”, Rino “era Wikipedia prima di Wikipedia”.
Primo articolo pubblicato a 13 anni, carriera giornalistica intrapresa a 19.
Avrebbe compiuto 91 anni il 23 febbraio. Il suo “personalissimo cartellino”, tanto per citare una delle sue mille immagini restate nell’abbecedario degli appassionati e non solo, è saturo di imprese, record e premi. Giornalista, conduttore televisivo, telecronista e organizzatore di eventi pugilistici. Buona carriera tennistica alle spalle.
Primo direttore dei servizi sportivi di Canale 5 (nel 1981) e Tele + (nel 1991). Ha seguito 13 Olimpiadi, 400 incontri di boxe valevoli per il titolo mondiale 149 tornei del Grande Slam.
La fama nazionale arrivò soprattutto negli Anni Ottanta, un po’ per il programma tivù La grande boxe e ancor più per le telecronache di tennis con Roberto Lombardi, Ubaldo Scanagatta e soprattutto Gianni Clerici. Coppia indissolubile e irripetibile: «Commentiamo le partite come due amici che si ritrovano davanti alla TV. Ci pagano per svolgere un lavoro per il quale pagheremmo noi», ha sempre detto. Ed era vero. Pareva facile, era complicatissimo: un mix rarissimo di competenza impreziosita da un approccio mai trombone ma anzi ironico e gioviale.
Qui, inesorabilmente, scatterà in molti la sindrome nostalgia e il conseguente “dopo di loro l’apocalisse”. Non del tutto vero. Senza dubbio Tommasi e Clerici hanno cresciuto e formato – più di quanto loro stessi credessero – intere generazioni (quelle che oggi hanno dai 40/45 anni in su). Le loro telecronache su Koper Capodistria, Tele+ e Sky erano un happening autentico. Qualcosa di irrituale e per certi versi rivoluzionario, terminato di fatto nel 2010 (Tommasi era da tempo fuori scena a causa di una lunga malattia).
Se però il calcio – dopo i Martellini e i Pizzul – è senz’altro mutato drasticamente come narrazione, abbondando ormai (con lodevolissime eccezioni) di urlatori ed enfatizzatori in servizio permanente, il tennis – se si allude a Sky, Supertennis ed Eurosport – resta ancora un luogo decorosissimo e a misura d’uomo. Casomai è cambiato proprio il tennis, divenuto sempre meno pindarico e sempre più atletico (e chissà come avrebbe commentato oggi Sinner il wikipediano ante-litteram Tommasi).
E’ comunque innegabile che Clerici e Tommasi non avranno eredi, perché troppo era il talento e troppa la simbiosi. Tanto era svolazzante e sublimemente funambolico Clerici quanto (all’apparenza) freddo e schematico Tommasi. Gianni Brera lo chiamava “Professore”, e ovviamente gli calzava a pennello.
Infinite le sue invenzioni verbali: “veronica”, “circoletto rosso”, “personalissimo cartellino”, “gli sta facendo fare il tergicristallo”, “volée agricola”, “palla calante, volée perdente”, “6-2 periodico” (nel senso che il vincitore aveva trionfato sempre con lo stesso punteggio ogni set), “5-2 pesante” (nel senso che chi stava avanti aveva due break di vantaggio), “ricamo”, “dritto anomalo”, “sentenza”, “benedizione”, “minibreak”. Fino alla “Legge Tommasi” (l’inesorabile sconfitta al primo turno di chi, la settimana prima, aveva vinto contro pronostico un torneo).
Tommasi detestava i fronzoli e viveva di numeri, statistiche e precedenti negli scontri diretti, ma era un “freddo anomalo” (sempre per citarlo). Soggiaceva come pochi alla bellezza e si esaltava puntualmente dinnanzi al bel gesto, fosse esso tennistico o pugilistico. Infatti adorava l’esteta totale Stefan Edberg, che Rino contrapponeva al troppo bruto (per lui e non solo per lui) Boris Becker, amatissimo invece da Clerici.
Divulgatore sopraffino, quando raccontava la boxe – ripetendo che nessuno sarebbe mai stato perfetto e inarrivabile come Sugar Ray Robinson – riusciva a far capire ogni cosa financo alle capre più irrecuperabili. Carattere per niente facile, sentimentale come un pilone dell’autostrada, dichiaratamente (molto) di destra.
Bravo come pochi e pionieristico come pochissimi, munito di un’ironia meravigliosamente spigolosa. Oggi lo fucilerebbero più volte per vilipendio al politically correct, come quando – insieme a Clerici – cantò “Bongo Bongo Bongo stare bene solo al Congo non mi muovo no no” in diretta tivù. Altri tempi, altri talenti.
Niente retorica, niente nostalgia, niente sindromi da boomer: buon viaggio e grazie di tutto, Maestro.