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Chi prendi, come lo presenti: dalla scelta dell'allenatore dipende tutta la stagione? Forse prima di Natale abbiamo già le tre big che hanno floppato in questo campionato

Chi prendi, come lo presenti: dalla scelta dell'allenatore dipende tutta la stagione? Forse prima di Natale abbiamo già le tre big che hanno floppato in questo campionatoTUTTO mercato WEB
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Oggi alle 00:00Editoriale
di Raimondo De Magistris
Nato a Napoli il 10/03/88, laureato in Filosofia e Politica presso l'Università Orientale di Napoli. Lavora per TMW dal 2008, è stato vicedirettore per 10 anni. Inviato al seguito della Nazionale

Quanto conta l'allenatore nel calcio? La domanda da sempre tra le più gettonate da quando questo sport ha fatto le sue fortune, da quando è diventato talmente nazional popolare da legittimare ogni tifoso a commentare e criticare, è sempre di grande dibattito.
Massimiliano Allegri ha recentemente dichiarato che in fondo il tecnico conta il giusto. Ancor più netto Thomas Tuchel, prossimo CT dell'Inghilterra: "Senza i giocatori un allenatore non conta nulla".
C'è poi chi la pensa diversamente, chi pensa che l'allenatore sia fondamentale. Sì un ingranaggio, ma molto importante. "Se faccio questo tipo di lavoro è perché penso che l’allenatore sia molto importante", disse De Rossi lo scorso febbraio.

Se prendiamo in esame questo campionato di Serie A, l'ago della bilancia pende nettamente verso chi difende le ragioni di questa seconda fazione. Guardate l'Atalanta: a Gian Piero Gasperini è stata davvero data la possibilità di lavorare come voleva, coi suoi tempi, e in meno di dieci anni ha trasformato una provinciale in una realtà del calcio europeo. Ha vinto l'Europa League, magari quest'anno bisserà con lo Scudetto. Gasperini (con le dovute proporzioni) ha avuto sull'Atalanta lo stesso impatto che Sir Alex Ferguson ha avuto sul Manchester United nei suoi 27 anni di regno.
Ma ci sono anche altri esempi. Più immediati. Antonio Conte ha riportato ordine in un Napoli che era a dir poco in subbuglio, Marco Baroni (ultima imbarcata a parte) ha permesso all'aquila di volare nuovamente alto. Sono due esempi positivi, ce ne sono altri: Simone Inzaghi è ormai sempre più il leader di un'Inter che quest'anno ha le credenziali per provare a vincere tutto. Anche la Champions League.

A conferma di questa tesi anche l'altra faccia della medaglia. Il Milan oggi sembra impresentabile anche per arrivare tra le prime quattro, però il suo allenatore sabato scorso ancora parlava di Scudetto. Già, ma come fa Fonseca dopo tutto ciò che è accaduto a essere ancora lì? Non è mai riuscito a creare un blocco squadra, è andato allo scontro con tutti i senatori dello spogliatoio, non riesce ad avere una minima continuità di risultati ed è a meno quindici punti dall'Atalanta.
Eppure è lì. A salvare fin qui l'allenatore portoghese sono stati un paio di acuti piazzati al momento giusto (prima l'Inter, poi il Real Madrid), un discreto cammino in Champions agevolato da un buon calendario e, soprattutto, una dirigenza incapace di riconoscere i suoi errori. Che si arrovella su sé stessa per non mettersi in discussione.

Ancora peggio sta andando alla Roma, società senza un organigramma all'altezza della sua storia e delle sue ambizioni. La decisione di esonerare Daniele De Rossi dopo un rinnovo fino al 2027 e appena quattro partite ha aperto lo stato di crisi già a fine agosto senza che nessuno ne sentisse il bisogno. Una scelta inspiegabile che come risultati ha prodotto l'allontanamento dell'amministratore delegato, un altro cambio in panchina per cercare di tamponare l'emorragia e una stagione da corsa salvezza dopo l'estate più dispendiosa dell'era Friedkin. Un paradosso.

Discorso diverso merita la Juventus, l'altra grande big attardata in classifica che ha nove punti in meno rispetto alla scorsa stagione e altrettanti rispetto all'Atalanta capolista. In questo caso non è in discussione la figura di Thiago Motta, la società fa sapere che non lo sarebbe nemmeno con una Juve fuori dalle prime quattro perché un nuovo capitolo è appena iniziato. Perché questo è un progetto costruito sui giovani, perché la priorità era abbassare il monte-ingaggi. Perché c'era da ricostruire dalle fondamenta. Perché, perché, perché... Tutti discorsi che possono starci, che stonano se parli di Juventus ma che hanno eccome una loro logica. Però vi ricordate con che credenziali Motta è arrivato a Torino? E' stato presentato come il nuovo vate degli allenatori, il tecnico che avrebbe subito riportato la Juve in vetta coniugando risultati e bel gioco. Che avrebbe ristabilito senza colpo ferire l'egemonia bianconera. Discorsi che non tenevano conto della realtà, che dannosamente aumentavano il peso delle aspettative. Ma non avevano solide fondamenta.

Motta sta capendo ora, per la prima volta, cosa vuol dire preparare una partita ogni tre giorni. Giocare Serie A, Champions League e poi di nuovo Serie A in una settimana. L'allenatore che ha riportato il Bologna nell'Europa più celebre dopo 60 anni sta crescendo insieme alla sua Juventus. Giovane come la sua squadra, ha bisogno di un naturale processo di maturazione fatto di prove, intuizioni ed errori. Probabilmente diventerà un grande allenatore, sicuramente non lo è ancora e senza alcun dubbio non è il nuovo Guardiola. Anche perché forse in troppi dimenticano che Pep, il tecnico che vanta il più alto numero di maldestri tentativi di imitazione, si ritrovò da esordiente in un Barcellona che poteva contare su Messi, Xavi e Iniesta all'apice della loro carriera. Ma anche su Eto'o, Piqué, Dani Alves, Busquets e Henry. Quanto contava l'allenatore in quel Barcellona?

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