Sergio Conceiçao: "Su mio figlio 2-3 top club, sono stato io a consigliargli la Juventus"
Durante la proclamazione dell’European Golden Boy e dell’European Golden Girl organizzato da Tuttosport a Roma a Casina Poste è intervenuto sul palco Sergio Conceiçao. Queste le sue parole: “Ho corso sotto l’Olimpico stamattina, ritornare a Roma è sempre sinonimo di felicità, ho ricordi bellissimi. Ho vinto tanto con una squadra fortissima e ogni volta che vengo mi tornano questi ricordi fantastici di quei due anni, poi sono tornato nel 2004 con Roberto Mancini allenatore. Ogni volta che vengo a Roma e in Italia mi vengono in mente bei ricordi. Eriksson era un signore, un uomo straordinario che doveva gestire uno spogliatoio del genere con campioni come Couto, Nesta, Salas, Nedved, Veron, tutti caratteri difficili ma non l’ho mai visto arrabbiato. Diventava rosso quando si innervosiva, ma noi sapevamo che avevamo la persona ideale per vincere e gestire quello spogliatoio. Una persona fantastica e mi emoziono a parlare di lui”.
Successivamente Conceicao ha parlato anche della valorizzazione dei giovani nel corso della sua carriera: “Noi allenatori abbiamo sempre le valigie pronte per andar via, dobbiamo pensare a vincere. I mezzi poi sono quelli che sono, a Porto quando ho firmato il contratto nel 2017 ho trovato una difficoltà grandissima perché non potevamo acquistare giocatori per il Fair Play Finanziario, per questo abbiamo lavorato sulla formazione dei giovani nel settore giovanile. Fa parte del mio carattere, abbiamo tanti esempi di giocatori che hanno avuto un successo incredibile. La formazione dei giovani nel settore giovanile non è facile, quando arrivano alle fasi finali di questo percorso si ritrovano davanti un calcio di altissimo livello dove si deve vincere ogni partita. Questo non è facile, bisogna lavorare tantissimo non solo tecnicamente ma sulla mentalità, il giocatore deve capire come si sta nel calcio moderno dentro e fuori dal campo. Bisogna capire che fisicamente deve stare a un livello alto, tatticamente deve capire cose che nel settore giovanile vengono trattate meno. Poi ci vuole mentalità, il calciatore deve capire che prima, durante e dopo l’allenamento deve avere il fuoco dentro. Io da allenatore al Porto guardavo ragazzi under 17, under 19 e della squadra B e abbiamo fatto un gran lavoro. Diogo Costa è titolare del Porto e della nazionale, Fabio Vieira è andato all’Arsenal, Vitinha è titolare del PSG e poi c’è Luis Diaz, che arrivando da un altro continente ha fatto il percorso di crescita che lo ha portato al Liverpool. Io con Eriksson ho avuto un’esperienza simile, dopo 2-3 settimane di allenamento mi ha convocato nello spogliatoio e mi ha chiesto come mai fossi sempre arrabbiato. Gli ho raccontato la mia storia, che avevo perso i genitori da piccolo e da quel momento è cambiato il mio approccio e il rapporto con lui. Io voglio avere sotto controllo tutti i dati e tutte le preferenze dei miei calciatori, se preferiscono il riso o la pasta, se hanno cani o gatti, perché dobbiamo metterli in condizione di rendere sempre al meglio e di vivere le migliori condizioni”.
Cosa deve fare un allenatore in questo senso?
"La parola principale è la passione, per il calcio e per la vita. Se non abbiamo questa passione non si va da nessuna parte, io sono ancora appassionato e devono esserlo anche i giovani. Devi passare dai sacrifici per arrivare ai vertici. Anche noi allenatori se siamo esigenti con gli altri dobbiamo esserlo prima di tutto con noi stessi. Dobbiamo essere genuini, essere diretti e sinceri con i giocatori. C’è una strada da fare, ci sono sacrifici da fare. Controllare ogni piccolo dettaglio per arrivare ad alto livello. Puoi avere qualità tecniche fantastiche, ricordo ad esempio Militao che ora è al Real Madrid. Il presidente del Porto è bravo a vendere (ride, ndr). Militao ha fatto un allenamento con noi sulla tattica difensiva e non aveva la minima nozione, non capiva i concetti di palla coperta e scoperta. Fisicamente era un mostro, tecnicamente straordinario e al San Paolo faceva il terzino o il mediano, ma fuori dal campo non faceva nulla. Era molto debole nel lavoro fuori dal campo, abbiamo dovuto fare un lavoro specifico sui comportamenti della squadra sul video e poi in campo per farlo crescere e portarlo a diventare il giocatore che è. Facevamo un lavoro sulla linea difensiva per una squadra corta e compatta, eravamo una squadra aggressiva che ringhiava, se lui mi rimane 50 metri dietro mentre i centrocampisti aggrediscono alto diventa un problema. Fuori dal campo se il weekend va a ballare il samba e mangia fagioli con riso e picanha diventa difficile arrivare ad alti livelli. Alcuni giocatori che ho lanciato li sento ancora, c’è un rapporto più umano che tecnico. Ho fatto stare in panchina due mesi Casillas e lui era molto arrabbiato con me, io ero arrabbiato con lui per come lavorava. Durante la pausa nazionale senza tanti giocatori mischiavamo i giovani che pensavamo potessero arrivare in prima squadra. In quei giorni Casillas non si è allenato benissimo, con il Lipsia in Champions ho fatto esordire Jose Sa e lui ha capito. Quando poi ho giocato con l’Atletico in Champions mi è venuto a trovare a Madrid. È molto importante la seconda squadra, ricordo la Youth League che tanti giocatori del Porto attuale hanno vinto e ho deciso di mandarli tutti nella seconda squadra, non per vincere il campionato ma per fare esperienza. È un calcio diverso, più fisico e serve a questi giocatori. Vitinha è uno di questi, è salito in squadra B e lì giocava poco, spesso stava in panchina. L’ho portato in prima squadra e gli ho dato minuti, non da titolare perché ha bisogno di tempo per capire cosa sia il calcio di alto livello. L’anno dopo lui si è presentato con qualche chilo in più, è andato in prestito al Wolverhampton e non ha giocato. È tornato da noi, ha fatto uno sforzo di stare con me per quattro mesi perché sono stato molto duro con lui, poi ha capito cosa serve per essere un campione perché lui tecnicamente è fortissimo, gli mancava solo qualcosa fuori dal campo”.
Anche suo figlio è andato in prestito
“Francisco per esempio è andato in prestito un anno all’Ajax, non ha giocato tanto ma ha capito cosa significa fare sacrifici. Non stava più con la mamma e i fratelli, ha capito le cose essenziali della vita come vivere da solo e maturare. È tornato al Porto, ha fatto una stagione straordinaria e ora è arrivato alla Juventus. Per allenare tuo figlio bisogna essere un po’ pazzi. Ho allenato sia Francisco che Rodrigo, che ora gioca in Svizzera. Io devo essere giusto, Francisco per sei mesi lo scorso anno non ha giocato, lo facevo entrare pochi minuti, faceva anche buone cose ma doveva capire come muoversi, come seguire l’organizzazione della squadra. Quando ha capito questo ha giocato, la tecnica, la velocità e la capacità di saltare l’uomo la conoscevo. Doveva inserire il resto per essere un giocatore completo pronto per giocare nel campionato italiano e in Champions League. C’erano due tre grandissime squadre che lo volevano, ma gli ho consigliato di venire in Italia alla Juve che è uno dei più grandi club al mondo. Sapevo che per le sue caratteristiche se avesse preso il controllo della situazione avrebbe fatto la differenza, senza prendere scuse perché in Italia si sta da Dio ed è un paese meraviglioso. Serviva umiltà, lavorare più per la squadra e di inserire altre cose con ancor più sacrificio. Se prende il controllo della situazione è sulla strada giusta, se pensa che i compagni non gli passano la palla o cerca scuse per l’allenatore o per l’ambiente questo non lo porterà da nessuna parte. Mio figlio piccolo che ha dieci anni ai tempi del Porto mi chiedeva perché non facevo giocare Francisco. Francisco sapeva quali erano i limiti delle nostre conversazioni, magari mandava il fratello piccolo per lamentarsi (ride, ndr)”.