Beppe Accardi racconta: "In Indonesia per Sandokan. Agente e nonno, il mio mondo”
Dal quartiere popolare Madonna di Tutto il Mondo di Palermo all’Olimpo del pallone. Nella vita vissuta da Beppe Accardi, classe 64, c’è spazio anche per una tappa da calciatore in Indonesia. Per la rubrica “I giganti del calcio” TuttoMercatoWeb.com ha incontrato l’esperto agente, che ha sviscerato aneddoti e pensieri sul suo passato con un occhio al futuro.
Emergono i tratti di un uomo a cui la vita ha regalato tante emozioni dopo un’infanzia complicata, ma il passato non si dimentica e così Beppe, quando può, si concede una passeggiata nei luoghi che hanno caratterizzato i primi anni della sua vita. E ogni visita dalle parti di Via Cortigiani, nel cuore popolare di Palermo, per “Pippetto” come lo chiamano gli amici di sempre è una festa.
Dal macellaio che lo abbraccia al proprietario del bar fino alla casalinga con le buste della spesa in mano che di lui ha i ricordi di infanzia vissuta insieme nella scuola del quartiere. Abbracci, sorrisi, emozioni. Siamo andati alla scoperta dell’uomo Beppe, meno del procuratore chiamato a rincorrere il miglior contratto per i suoi assistiti.
Chi è l’uomo Beppe Accardi?
“Uno dei figli del quartiere Madonna di Tutto il Mondo. Una persona che non ha mai dimenticato delle sue origini. Il mio quartiere mi ha insegnato che nessuno ti regala niente. Devo tanto al mio rione, alla mia famiglia. E i miei soldi li ho investiti proprio a Palermo”.
Accardi, i suoi primi passi nel calcio?
“Mio padre mi portava nelle scuole calcio della zona. La più prestigiosa di Palermo era la Bacigalupo dei fratelli Dell’Utri. Ebbi Zeman come allenatore. Quella squadra ci ha insegnato a saper stare al mondo. Poi sono andato all’Amat dove ho incontrato un altro maestro di vita, papà, istruttore”.
Quando ha capito che il calcio era il suo mondo e poteva guadagnare bene per davvero?
“Non l’ho mai capito. Non giocavo per i soldi, ma per il piacere di farlo. Per divertirmi, sognare. Da ragazzi ai nostri tempi l’ultimo pensiero erano i soldi. Pensavamo ad arrivare il più in alto possibile”.
Nel suo percorso da calciatore c’è anche un’esperienza in Indonesia. Perché?
“Perché era il paese di Sandokan. Avevo appena risolto il mio contratto con la Reggiana e stavo valutando l’ipotesi di andare alla Pistoiese. Quando stavo per andare a Pistoia mi chiamò l’intermediario dell’affare indonesiano dicendomi di avere pronto il contratto. Alle 23:39, lo ricordo ancora come fosse oggi, mi arrivò il fax. Quaranta pagine di contratto. Il giorno dopo preso l’aereo per l’Indonesia. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Grazie a questa avventura sono andato al Torino come dirigente. Nella mia vita sono sempre stato fortunato, quando la Famiglia Bakrie vendette il Torino la società mi fece una proposta di rinnovare il contratto. Ma era giusto che andassi via perché ero arrivato con gli indonesiani. Poi mi si presentò l’occasione di lavorare con Antonio Caliendo e Beppe Galli”.
Perché con Caliendo e Galli siete arrivati alla separazione?
“Avevamo un carattere forte. E quando ci sono tre persone con lo stesso carattere è inevitabile separarsi. Però rimane il rispetto”.
I suoi primi calciatori?
“Armando Perna, Leandro Rinaudo, Pietro Accardi: tutti calciatori di quell’epoca. Senza dimenticare Houssine Kharja”.
Oggi Perna, Rinaudo e Accardi fanno i direttori sportivi rispettivamente a Cosenza, Palermo ed Empoli. Com’è interfacciarsi con loro per chi li ha cresciuti?
“Non mi prendono neanche un giocatore perché non vogliono far pensare che essendo stato il loro agente magari possono agevolarmi. In questo mondo c’è sempre il sospetto. A parità di operazione è più facile che facciano un affare con un altro procuratore piuttosto che con me per evitare pensieri strani. Purtroppo viviamo nell’epoca della cattiveria”.
Dei tre chi è il direttore più pronto per una big?
“Hanno caratteristiche diverse. Rinaudo ha già fatto il salto perché lavora in un club come il Palermo che fa parte del City Group. Accardi ha più esperienza ed è più pronto, lo hanno apprezzato tutti. Ma per il futuro punto su Armando Perna: è intraprendente, ha una grande capacità di empatia con i calciatori ed è un generoso. E ha tanta voglia di crescere”.
Come è cambiata la gestione di un calciatore rispetto a quando ha iniziato?
“È cambiata l’educazione dei giovani. Prima non potevamo alzare la testa, perché i genitori ti insegnavano che il sacrificio è alla base di tutto. Quando ero ragazzino il mondo girava nella direzione giusta: i genitori facevano di tutto per i loro figli, li responsabilizzavano. E soprattutto gli insegnavano i giusti valori. Oggi con i social network è cambiato tutto. I ragazzi non hanno più le armi per combattere, tutti pretendono ma nessuno vuole fare”.
Lei prima del fallimento stava per consegnare il Palermo nelle mani di York Capital. Non aver chiuso la trattativa è uno dei rimpianti più grandi?
“Ci lavoravamo da qualche anno. Da due anni prima del fallimento. Sarebbe stata una bella cosa per la città, un sogno. Però col sennò di più chi è venuto dopo è riuscito a consegnare il Palermo in ottime mani come quella del City Group”.
Andiamo nel suo quartiere… Immagino che sarà l’orgoglio del luogo.
“Si, sono l’orgoglio del mio quartiere. Quando riesci a ritagliarti una posizione importante e ricordi da dove sei venuto non puoi che diventare un riferimento. Il mio rione è fatto di gente che lavora. E anche chi non è parente è come se lo fosse”.
Chi è Beppe Accardi fuori dal calcio?
“Il papà, il nonno, il marito. Il giardiniere di casa casa mia. Da poco è arrivata Muriel, la mia nipotina: un pezzo di cuore. Non amo molto la vita mondana, quando posso vado a San Vito Lo Capo. E ogni tanto torno nel mio quartiere per vivere belle sensazioni. Non ho bisogno di cose esagerate: sono un uomo semplice”.
Quanti amici ha Beppe Accardi nel calcio?
“Gli amici li ho nel mio quartiere, nel calcio tanti conoscenti. Anche se il mondo del pallone mi ha dato pure degli amici. Houssine Kharja mi ha dato tanto, come Idrissa Camara che ha un grande cuore e con quei pochi soldi che guadagna cerca di dare un sogno e una speranza ai ragazzi del suo paese. E poi c’è Mbaye, lo sapete tutti: è il figlio maschio che non ho avuto. Negli anni poi è entrato nella mia vita Marco Lo Giudice, l’ho conosciuto in occasione di una Palermo Football Conference: vuole fare l’agente, per mesi non gli ho risposto al telefono. Di gente che parla ce n’è tanta, lui ha mostrato ostinazione e perseveranza. Così ho iniziato a farlo crescere. Merita e nel futuro può diventare un agente di un certo livello”.
Dice sempre che vuole smettere però è sempre nella giostra del calcio…
“Sto cercando di far crescere dei ragazzi che hanno voglia, come il mio braccio destro Marco Lo Giudice. Vorrei smettere quando avrò la certezza che i miei ragazzi potranno continuare il percorso”.
Come si vede un giorno senza calcio?
“Continuo ad immaginarmi a San Vito Lo Capo senza calcio, a fare il nonno. Tutti, anche mia moglie, pensano che non sia possibile. Ma ho una responsabilità nei confronti dei ragazzi che mi hanno dato fiducia. Sto aspettando che Marco, Antonio Orlandi e Gianni Magi possano prendere in mano le redini: quando saranno forti potranno crearsi una storia con i miei valori, ossia rispetto e fiducia. E poi davvero mi dedicherò a fare il nonno a tempo pieno. Mi immagino a tagliare l’erba di casa mia. Oppure quando sono a Palermo in giro con la mia nipotina per farle vedere le bellezze della mia terra”.
Senza calcio, davvero?
“Si, davvero. Oggi i calciatori non sognano più, non hanno voglia di raggiungere qualcosa. Pensano che tutto sia dovuto. È tutta una questione di soldi. E a quattordici anni ti chiedono quanti soldi possono guadagnare. Una follia”.