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Carlo Nesti: Bruges, la mia notte su una panchina

Carlo Nesti: Bruges, la mia notte su una panchinaTUTTO mercato WEB
ieri alle 11:09Altre Notizie
di Redazione TMW
(DA "LA VITA È ROTONDA" - SAGGESE EDITORI)

Arriva la prima trasferta di lavoro all’estero della mia vita: è Tuttosport a offrirmi questa possibilità, a pochi passi dalla semifinale di andata di Coppa dei Campioni, fra i belgi del Bruges e la Juventus. È il 19 marzo 1978, e non mi considero un “viaggiatore”, nonostante sia una prerogativa obbligatoria, in genere, dei giornalisti.

Affronto l’esperienza, perciò, con un livello di apprensione altissimo, anche perché mi tocca effettuare il tragitto da solo. Se fallissi, quando verrebbe data ancora un’occasione simile a un ragazzino? Questo è un anticipo dell’esame per diventare professionista, diverso da quello di Roma, ma utile, sul campo, per confermarmi degno di sostenerlo.
Raggiungo l’aeroporto di Linate in auto, la parcheggio, e mi imbarco sul Milano-Bruxelles, in una situazione che accentua l’isolamento: come passeggeri siamo in tre, io e due suore. Non sono superstizioso, e mi è capitato di ottenere 30 e lode in un esame universitario dopo che un grosso gatto nero ha attraversato la strada. Cosa saranno mai due suore?

Una volta arrivato a Bruxelles, salgo sul treno diretto a Bruges, cittadella medioevale, la “Venezia del Nord”, dove assisterò alla partita del campionato belga fra Bruges e Standard Liegi. A spiare i prossimi avversari c’è il “vice” di Trapattoni Romolo Bizzotto, che mi assicura un passaggio in auto, a fine incontro, per tornare all’aeroporto di Bruxelles.
Il “timoniere” del Bruges è Happel, un austriaco che, dietro al viso duro da portuale, nasconde trappole degne del calcio italiano e dei suoi tatticismi. A proposito di malocchio, taglierà spesso la strada al football nostrano, come giustiziere senza scrupoli: Bruges-Juventus 1978, Olanda-Italia 1978, e Amburgo-Juventus 1983.
A sette turni dall’epilogo, la sua squadra ha 3 punti di vantaggio in classifica proprio sullo Standard e, trascinata dal bomber Lambert, batte i rivali per 1-0. Ma, a me, giornalisticamente, non interessa tanto il risultato, quanto il modo di schierarsi e di giocare. È ciò che mi è stato commissionato da Pier Cesare Baretti, per capire cosa attende la Juventus.
Alla fine della partita, devo rintracciare Romolo. La calca è impressionante e mi impedisce di muovermi ma, in ogni caso, lo riconosco, a circa 50 metri, lo vedo salire su un’auto e tento disperatamente di chiamarlo. Una, due, tre volte: niente da fare. Rimango a spasso, e comincio ad avvertire un nodo in gola dalla paura.
Trasmetto l’articolo da una cabina telefonica, prendo un pullman, vado in stazione, e comprendo di avere i minuti contati se voglio arrivare in tempo all’aeroporto, in un intreccio di strette coincidenze. Oltretutto, non conosco una parola di francese, sono in possesso di un inglese scolastico, ma non tutti sono disposti ad aiutarmi.
In treno, sono troppo nervoso per sedermi. Quando giungo a Bruxelles, e mi accingo a salire sull’autobus che mi condurrà all’aeroporto, mi accorgo che il portafoglio è praticamente vuoto. Accidenti! Mi hanno derubato! Restano soltanto il passaporto, il biglietto aereo e pochi spiccioli, mentre mi tornano in mente le due suore sul Milano-Bruxelles.
Entro nell’aerostazione, corro all’impazzata verso la sala d’imbarco ma, quando arrivo, scopro che l’ultimo volo su Milano è partito da cinque minuti, e il successivo sarà il mattino dopo. Ho quasi 23 anni, ma scoppio a piangere come un bambino. Devono ancora passare dodici anni prima dell’avvento dei cellulari, e ho già consumato tutti i gettoni.
Quando mi presento al bancone dell’Alitalia, credo di avere il volto spaurito di chi è appena scampato a un bombardamento. Faccio tanta pena da convincere il personale a telefonare a casa per tranquillizzare i genitori. In realtà, se c’è qualcuno da tranquillizzare, è il sottoscritto, figlio unico, straviziato, e alle prese con la prima “avventura”.
Appena mi rassereno, mi vergogno del ritardato infantilismo, ma cosa ci posso fare? Mi rassegno, senza soldi per l’albergo, a dormire l’intera notte su una panchina, alla stregua di un barbone. Nessuno dovrà mai sapere, a Tuttosport, di quanto mi è accaduto. L’essenziale è presentarmi in redazione alle 14:00 del giorno dopo.

Durante la notte, rannicchiato sotto il cappotto, non riesco neppure a capire se sto dormendo o no. A un certo punto, sento rumori sinistri vicino a me. Non ho il coraggio di scoprirmi e guardare. Stringo fra le dita il passaporto e il biglietto aereo, come se fossero lingotti d’oro da difendere, perché ho paura di essere ancora derubato.
Mi resterà per sempre il dubbio su cosa stesse avvenendo. Molto probabilmente, si trattava soltanto degli aspiratori degli addetti alle pulizie, e non dei fantasmi di un film dell’orrore. Ma decifrare dei rumori, senza intuire da dove provengano, è un’esperienza che non auguro, decisamente, a nessuno.
All’alba, il primo volto noto che vedo è quello di Franco Costa, inviato de La Stampa, futuro collega, appena due anni dopo, in Rai. Il primo italiano. Il primo giornalista al quale appoggiarmi. Non mi sembrerà mai più così bello, alto, robusto e rassicurante, come quel mattino. Ed è già come avere un piede sulla porta di casa, sano e salvo.

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