#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: Lazio ‘74. La banda Maestrelli: la squadra più folle di sempre
La sera del 18 gennaio 1977 tre giovani uomini entrano in una gioielleria del quartiere Fleming a Roma. Sono un profumiere della zona, Giorgio Fraticcioli, e due calciatori della Lazio, Pietro Ghedin e Luciano Re Cecconi. Come vadano le cose, nessuno lo sa. C’è chi dice che Re Cecconi, biondo centrocampista dei biancocelesti, alzi il bavero del cappotto e urli “fermi tutti, questa è una rapina”. C’è chi dice che il titolare della gioielleria, reduce da diverse rapine, si allarmi senza un reale motivo e faccia partire il colpo. C’è chi dice che il proiettile parta per sbaglio.
Fatto sta che la pistola di Bruno Tabocchini spara. Il proprietario colpisce in pieno petto Re Cecconi. La leggenda prosegue: le ultime parole del 29enne sarebbero “era tutto uno scherzo”. Come siano andate le cose, nessuno lo sa ancora oggi. Il gioielliere è stato assolto, sulla vicenda sono stati scritti fiumi di parole e diversi libri. Quel che è certo è che, la sera del 18 gennaio 1977, trasportato di gran fretta ma senza fortuna all’Ospedale San Giacomo, Luciano Re Cecconi muore. Ha 28 anni, lascia la moglie e due figli, tre anni dopo aver vinto il primo scudetto della Lazio. E questo è il folle epilogo della banda Maestrelli, la squadra più pazza nella storia del calcio italiano.
Poche mesi prima di Re Cecconi, un tumore al fegato si è portato via Tommaso Maestrelli. Per il suo funerale, torna in Italia anche Giorgio Chinaglia, altro simbolo di quel miracolo a tinte biancocelesti, che nella primavera del ’76 è “scappato” negli Stati Uniti. Long John, pioniere del calcio in un Paese che lo chiama soccer e continua ancora oggi a praticarlo controvoglia, non è fuggito dalla legge, come gli capiterà più avanti negli anni. È scappato dalla “sua” Lazio, è andato via per giocare con Pelé. Rientra per l’ultimo saluto a Maestrelli, allenatore e forse anche padre spirituale di un gruppo di giocatori fuori dall’ordinario.
Un italiano buono. Classe ’22, pisano di nascita ma girovago per necessità familiari e infine pugliese d’adozione, le cronache del tempo raccontano Maestrelli, prima ancora che come un grande allenatore, come un uomo mite, capace di ricucire qualsiasi strappo, di unire attorno a sé giocatori, tifosi e giornalisti. Di calmare gli animi. Ha avuto un gran lavoro da fare, perché i calciatori della Lazio del ’74 non si limitano a fare le bizze. Si odiano.
Cronache di un calcio che non abbiamo visto e vissuto. Per raccontarlo ci affidiamo alle parole e ai racconti del tempo. I giornali dell’epoca raccontano che nello spogliatoio girino pistole. La Lazio di Maestrelli è quasi esplicitamente considerata una squadra fascista, o quantomeno di estrema destra. Entrambe esagerazioni: quanto alle pistole, tutti i diretti interessati hanno sempre smentito. Sulla connotazione politica, quell’appellativo suona anzitutto come un’offesa allo stesso Maestrelli, che durante la Seconda Guerra Mondiale è stato partigiano.
Certo, tra i biancocelesti c’è chi vota MSI. Ma ci sono anche i democristiani, come pure i disinteressati. Ecco, magari non i comunisti, anche se dell’allenatore si dice avesse simpatie a sinistra. Non è una squadra fascista, probabilmente non è neanche una squadra armata. È una squadra che picchia, questo sì. Che si picchia, soprattutto: lo spogliatoio è diviso in due fazioni. Se il termine odio suona eccessivo, la rivalità è accesa a dir poco. Un gruppo contro l’altro. Da un lato: Chinaglia, Wilson, Pulici, Oddi, Facco. Dall’altro: Re Cecconi, Martini, Frustalupi, Garlaschelli, Nanni. Spogliatoio è un parolone: ne hanno due, perché dal lunedì al sabato proprio non si vogliono vedere.
Come nasce la banda. La Lazio che nel 1974 arriva a vincere lo scudetto è una squadra recente, costruita da poco. Maestrelli ne diventa allenatore nel 1971, quando i capitolini sono reduci da una stagione disastrosa: quindicesimi in Serie A, retrocessi in Serie B. Trova leader giovani e carismatici, ma dal carattere fumantino: Chinaglia e Wilson sono lì dal ’69, per fare due esempi. Long John non vuole scendere in cadetteria, il nuovo tecnico lo convince a restare, inizia il suo paziente lavoro di tessitura. Comincia a costruire una rosa come non si è più rivista. Getta le fondamenta: dal Livorno arriva il terzino Martini, dalla Massese rientra il giovane Oddi, dalla Primavera entra in pianta stabile nella Prima Squadra un talentoso Vincenzo D’Amico. La Lazio non vince la Serie B, arriva seconda, ma tanto basta. L’estate 1972 è quella in cui alle basi si aggiunge qualcosa in più: il colpo è proprio lo sfortunato Re Cecconi, tesserato dal Foggia, dove lo ha già allenato Maestrelli. Il presidente dei pugliesi firma la cessione, si dice, da un letto di ospedale. Dall’Inter ecco Frustalupi, dal Como c’è Garlaschelli, Pulici arriva dal Novara. Chinaglia è di nuovo sul punto di partire, stavolta non per decisione sua: la società lo ha praticamente venduto alla Juventus. Il diretto interessato non la prende bene, replica che no, a Torino non ci va. Ancora, le cronache del tempo narrano che appenda letteralmente il presidente Lenzini alla porta. Aneddoti esagerati, o forse no. Il grosso della banda Maestrelli è formato: ne vedremo delle belle.
La Lazio è la vera sorpresa della Serie A 1972/1973. Lenzini e il suo tecnico pensano di aver costruito una squadra in grado di salvarsi tranquillamente, e invece si ritrovano per le mani una fuoriserie che chiude al terzo posto, a due punti dalla Juve prima. Non solo: si qualifica in Coppa Uefa e batte la Roma in entrambi i derby, che nell’Urbe non è cosa da poco. Roba da pazzi. Se non fosse che i pazzi giocano in biancoceleste. E l’anno successivo fanno ancora meglio. Poco o nulla sul mercato, tanto si è capito che le qualità ci sono.
Arriva lo scudetto. Formazione tipo ben definita: Pulici in porta, in difesa Wilson libero e Oddi stopper, con Petrelli e Martini terzini. A centrocampo Nanni, Frustalupi e Re Cecconi. In attacco Garlaschelli e D’Amico supportano Chinaglia. Quest’ultimo è il bomber della squadra: chiude la Serie A ’73/74 con 24 gol fatti, un’enormità per l’epoca. Da campione d’Italia. Perché sì, avviene il miracolo più cattivo nella storia del calcio italiano: la Lazio migliora il terzo posto, vince lo scudetto, con due punti di vantaggio sulla solita Juventus. È un trionfo vichiano: arriva, per i corsi e i ricorsi della storia, contro il Foggia. All’Olimpico, la partita finisce 1-0, segna l’immancabile Chinaglia su rigore. La Vecchia Signora non può più recuperare. E non può farlo perché nella giornata precedente, ironia della sorte, ha perso contro la Roma: la Lazio si mette il tricolore sul petto, per la prima volta nella sua storia. E tutti si chiedono come sia stato possibile.
La diversità della banda. Scudetto a parte, in due stagioni irripetibili e a cui infatti ne faranno seguito altre deludenti, il massimo campionato è sconcertato da un gruppo che non ha senso. È diverso da qualsiasi altra formazione, vista e che si vedrà. I giocatori quasi non si parlano in settimana, come abbiamo detto si cambiano in due spogliatoi diversi. Dal lunedì al sabato si respira aria pesante, ma la domenica si corre tutti nella stessa direzione, per vincere insieme. E si picchia, certo che si picchia. La cosa più impegnativa, dal punto di vista fisico, sono proprio le amichevoli infrasettimanali, le classiche partitelle di allenamento. Sono battaglie campali, i due clan si affrontano e si menano senza esclusioni di colpi. Il peggiore nemico di un giocatore della Lazio è un altro giocatore della Lazio. Che paura volete possano fargli dei “normali” avversari della domenica?
”È una guerra!” Della tempra biancoceleste restano testimonianze anche oltre le Alpi. A novembre 1973 la Lazio gioca in Coppa Uefa, all’Olimpico, contro l’Ipswich Town di Bobby Robson, futuro sir. Chinaglia e suoi compagni devono rimontare il 4-0 subito all’andata, ci provano con tutte le loro forze, ma sbattono (anche) contro un arbitraggio giudicato non all’altezza. E nel secondo tempo succede di tutto: calci, spintoni, in campo dagli spalti vola qualsiasi cosa. Al fischio finale, le cose peggiorano. I biancocelesti inseguono arbitro e avversari: il portiere degli inglesi, Best, rimedia una sospetta fattura della tibia. Robson dichiara: “Non è calcio, questa è guerra”. Eliminata, la Lazio viene multata pesantemente e resta un anno fuori dalle coppe europee: dovrà rinunciare, l’avete intuito, alla Coppa dei Campioni. E l’allenatore dell’Ipswich non sa quanto ha ragione: giocare contro la Lazio è come andare in guerra. Ma giocarci dentro lo è ancora di più. Il segreto perché tutto questo sia possibile ha un nome e un cognome.
Tommaso Maestrelli. Riavvolgiamo il nastro, siamo alla fine della nostra storia. Un uomo mite alla guida di un gruppo sanguigno. Abbiamo usato dei verbi chiari: tessere, ricucire, costruire. È quello che l’allenatore fa, per tutto il tempo in cui guida i capitolini. Ha intuito che le possibilità di successo sono lì, sulla linea del rasoio. Che l’equilibrio è precario, ma finché regge ci sono delle speranze. E che la soluzione non è spegnere gli animi, ma tenerli vivi e placarli solo quando diventa necessario. È un secondo padre per i suoi giocatori, non sta dalla parte di nessuno e al contempo sta dalla parte di tutti. Ad arbitrare le partitelle ci pensa lui, è l’unico che può tenere unita una squadra attaccata col nastro adesivo. S’inventa un rito: quando c’è un problema, si va a cena a casa sua. Ogni giorno c’è un giocatore diverso, con ciascuno Maestrelli adotta la sua strategia. Chinaglia è il più difficile da domare, ma è anche quello che stringe di più il rapporto col tecnico: un giorno sì e l’altro no, cenano insieme. Diventa uno di casa. Il centravanti vuole decidere, fare la formazione, prendere le redini. Maestrelli lo lascia parlare, poi sceglie lui. È una ricetta che va. La banda è una famiglia, per quanto disfunzionale. Raggiunto lo scudetto, inizia a sfaldarsi. E qui torniamo all’inizio, riannodiamo il filo, perché dalla tragedia siamo partiti e con quella si chiude questa storia. A metà campionato 1974-1975 Maestrelli si deve fermare, scopre di avere un tumore al fegato. Resta vicino alla squadra, nel momento più difficile della stagione successiva tornerà anche in panchina, ma l’incantesimo si è ormai rotto. Dopo la A ’75-76 Chinaglia va negli Stati Uniti, a fine 1976 Maestrelli muore. Poi il dramma di Re Cecconi. Gli altri compagni vanno avanti, alcuni scrivono pagine importanti del nostro calcio. La magia vera è durata due anni: bellissimi, turbolenti, indimenticabili. Seguiti da tanto dolore. Ma non poteva esserci una conclusione normale, per la squadra più pazza d’Italia.