
Santon: "Dopo aver smesso alla Roma ero depresso, senza meta. Ho avuto bisogno di aiuto"
Nel corso di una lunga intervista alla Gazzetta dello Sport, l'ex prodigio del calcio italiano Davide Santon ripercorre la sua carriera parlando dell suo esordio precoce e di tutto quello che è arrivato dopo: "Quando sei lì a 17 anni, non sai quanto sia difficile gestire le aspettative della gente: se stai sotto l’asticella, vieni preso di mira. Dopo il primo anno avevo raccolto tutto, dallo scudetto alla Nazionale, poi mi ruppi il ginocchio: le conseguenze dell’infortunio mi hanno accompagnato fino all’ultimo giorno. Non è stato gestito bene dal punto di vista medico: io, sbagliando, ho seguito le pressioni per tornare il prima possibile. Ma il mio fisico non sarebbe mai stato più come prima...".
Con la testa di oggi come avrebbe agito?
"Se all’epoca un mister mi diceva “ho bisogno di te”, io rispondevo “sono pronto”, anche se non lo ero. Quando mi sono rotto il ginocchio la prima volta in U21, ho accettato di giocare la ripresa stringendo i denti e rovinandomi completamente: oggi direi di no e, al rientro, non forzerei più i tempi. Dopo il primo ritorno, ho iniziato a giocare male e, dopo 4 mesi, nuova operazione e fuori altri 8. Da quel momento in poi posso dire di aver giocato spesso con una gamba e mezza. Anche solo per allenarmi dovevo tenere il ghiaccio per ore: una zavorra dal punto di vista mentale. Gli errori, le critiche, gli affanni in campo: erano gocce che scavavano nella testa. Serviva aiuto per provare a rialzarsi".
Ha ancora un supporto psicologico?
"È stato decisivo nei primi 6-7 mesi dopo aver smesso alla Roma: ero depresso, senza meta. Pensavo solo alla mia fine triste, diversa da quella che avrei voluto, eppure ero così stanco... Il calcio era diventato solo sofferenza più che gioia, però nello stesso tempo ero pieno di “se”: se avessi fatto quello, se non mi fossi fatto male, se, se... Ma se il rimpianto ti assale, serve aiuto".
Il calcio le piace ancora?
"Per i primi mesi dopo il ritiro non ho visto mezza partita: lo odiavo, ma oggi sono in pace con me stesso. Potevo essere ancora lì, è vero, ma le partite sono belle anche in tv. Ad esempio, che meraviglia vedere il mio Newcastle vincere un titolo dopo 56 anni. Lì, in Inghilterra, ho avuto le 3 stagioni più continue e felici, a parte gli ultimi mesi in cui ero fuori per il terzo intervento nello stesso ginocchio. Non me ne sarei andato mai, ma come facevo a dire di no alla chiamata di Mancini nel ‘15? Significava tornare a casa, non da bambino ma da uomo. Volevo la possibilità di una rivincita, ma il fisico non me l’ha concesso".
Con la testa di oggi come avrebbe agito?
"Se all’epoca un mister mi diceva “ho bisogno di te”, io rispondevo “sono pronto”, anche se non lo ero. Quando mi sono rotto il ginocchio la prima volta in U21, ho accettato di giocare la ripresa stringendo i denti e rovinandomi completamente: oggi direi di no e, al rientro, non forzerei più i tempi. Dopo il primo ritorno, ho iniziato a giocare male e, dopo 4 mesi, nuova operazione e fuori altri 8. Da quel momento in poi posso dire di aver giocato spesso con una gamba e mezza. Anche solo per allenarmi dovevo tenere il ghiaccio per ore: una zavorra dal punto di vista mentale. Gli errori, le critiche, gli affanni in campo: erano gocce che scavavano nella testa. Serviva aiuto per provare a rialzarsi".
Ha ancora un supporto psicologico?
"È stato decisivo nei primi 6-7 mesi dopo aver smesso alla Roma: ero depresso, senza meta. Pensavo solo alla mia fine triste, diversa da quella che avrei voluto, eppure ero così stanco... Il calcio era diventato solo sofferenza più che gioia, però nello stesso tempo ero pieno di “se”: se avessi fatto quello, se non mi fossi fatto male, se, se... Ma se il rimpianto ti assale, serve aiuto".
Il calcio le piace ancora?
"Per i primi mesi dopo il ritiro non ho visto mezza partita: lo odiavo, ma oggi sono in pace con me stesso. Potevo essere ancora lì, è vero, ma le partite sono belle anche in tv. Ad esempio, che meraviglia vedere il mio Newcastle vincere un titolo dopo 56 anni. Lì, in Inghilterra, ho avuto le 3 stagioni più continue e felici, a parte gli ultimi mesi in cui ero fuori per il terzo intervento nello stesso ginocchio. Non me ne sarei andato mai, ma come facevo a dire di no alla chiamata di Mancini nel ‘15? Significava tornare a casa, non da bambino ma da uomo. Volevo la possibilità di una rivincita, ma il fisico non me l’ha concesso".
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