
Uscire dal labirinto con un solo uomo al comando
La Juventus è entrata prepotentemente in una struttura complicata, intricata e disorientante, dalla quale prima si esce e meglio è. Non stiamo di certo parlando del labirinto seicentesco nello splendido e incantevole giardino di Boboli a Firenze oppure di quello settecentesco romantico fatto di siepi di bosso di Villa Pisani sulla Riviera del Brenta descritto così dal D’Annunzio nel Fuoco: «Composto da un giardiniere ingegnoso, per il diletto delle dame e dei cicisbei nel tempo dei calcagnini e dei guardinfanti». Quello in cui girovaga la Vecchia Signora, la quale ha ampiamente e tristemente dimostrato di non possedere le doti e la forza di Teseo, è abitato soltanto da feroci minotauri a piede libero e purtroppo di Arianna e del suo filo neanche l’ombra.
Dalla prima volta in cui questa parola fu pronunciata a oggi, l'intricato dedalo - anche così è chiamato, per antonomasia, dal nome del costruttore del labirinto del re Minosse a Creta - non ha mai smesso d'ispirare artisti, filosofi, architetti fino ai contemporanei programmatori di algoritmi random. È un labirinto ciò che attende colui che saprà varcare la soglia della biblioteca del monastero nel Nome della rosa di Umberto Eco. Le cui ultime parole sono: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus». Ovvero: «La rosa antica esiste solo nel nome, tutto ciò che possediamo sono soltanto parole nude». E di labirinti sono popolati anche i racconti dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, come La biblioteca di Babele, pubblicato nel 1941 e raccolto, insieme ad altre novelle, nel Giardino dei sentieri che si biforcano. Un labirinto – amava dire - è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine. Anche se – proseguiva - non c’è bisogno di costruire un labirinto quando l’intero universo è un labirinto.
L’immagine del labirinto porta con sé tutto il suo carico d'inquietudine, smarrimento e insieme di tentazione, di seducente fascino. Alla Juventus di oggi soltanto uno stato di sconcerto misto a ignavia.
Il termine deriva dal greco labyrinthos, ma il punto, linguisticamente parlando, è che la storia del suo etimo è a sua volta un labirinto. Fu il filologo tedesco Wilhelm Meyer ad azzardare un'ipotesi che le tante soluzioni successive non sono ancora riuscite a scalzare: la provenienza della parola labirinto dal lidio (la lingua anatolica parlata nella regione affacciata sul mar Egeo) labrys, ovvero ascia bipenne, la scure a due lame simbolo del potere reale a Creta, tralasciando quella più semplice di caverna che si dirama in varie direzioni.
II pericolo etimologico, in questo caso, è rappresentato dallo smarrirsi nei meandri del pensiero; quello bianconero, che sta portando sconfitte e mortificazioni, è dato dal rimuginare, elucubrare, speculare, immaginare, solo per non andare più in là del punto di partenza di idee che restano mute e smarrite, incapaci di farsi parola e dunque realtà. Ecco Platone che, nel dialogo Eutidemo, descrisse quella struttura labirintica del ragionare che impedisce alle idee di ancorarsi saldamente alla realtà: «Giunti all'arte di regnare ed esaminandola a fondo, per vedere se fosse quella a offrire e a produrre la felicità, caduti allora come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine, risultò che eravamo ritornati come all'inizio della ricerca. E che avevamo bisogno della stessa cosa che ci occorreva quando avevamo incominciato a cercare».
L’ateniese si riferiva alla filosofia, a noi più modestamente servirebbe semplicemente un po’ più di conoscenza del calcio da parte di coloro che “dirigono” la Vecchia Signora per uscire palla al piede dal labirinto, lasciandoci dentro soltanto i minotauri. Quell’ascia bipenne, simbolo del potere, dovrebbe essere una buona volta dissotterrata, affinchè alla Juventus – per rivederla grande e vincente - ci sia davvero un solo uomo al comando e non tanti uomini che credono di comandare, ma che sono in realtà semplicemente allo sbando in un labirinto di costose scrivanie tarlate e panchine d’oro, in barba alla chimica, arrugginite.
Roberto De Frede







