Motta, anche col Cagliari e sempre, oltre il direttore d’orchestra
Spesso si è portati ad associare gli undici calciatori in campo, in maglietta e mutandoni, agli orchestrali nel golfo mistico, abbracciati a viole e violoncelli, in frac e polsini baciati da gemelli d’oro; di conseguenza il loro allenatore equiparato al direttore d’orchestra sul podio con tanto di bacchetta dall’elegante manico in legno di palissandro. Paragone molto affascinante ma lontano dal vero, un complimento melodioso e romantico arrivato puntualissimo a Thiago Motta, dopo la vittoriosa battaglia di Lipsia.
La conoscenza delle partiture, la profondità dell’intesa musicale con i maestri dell’orchestra, la semplicità affettuosa del gesto, il rispetto totale per gli autori, per gli orchestrali e per il pubblico. Le luci del teatro si spengono, solo i fari illuminano l’orchestra, il silenzio in sala è palpabile. Ecco che un personaggio entra sul proscenio, e scatta l’applauso. È il direttore d’orchestra: s’inchina per ringraziare, stringe la mano al primo violino, e poi gira le spalle al pubblico. In questa posizione rimarrà per tutta la serata, rimanendo tuttavia una guida e un capo per la folla nella sala. Egli sta alla loro testa e ha volto loro le spalle. È lui che tutti seguono, poiché è lui che fa il primo passo. Invece che con i piedi, egli avanza con la mano. L'interno flusso della musica, suscitato dalla mano, corrisponde al cammino che egli percorrerebbe con le gambe. La gente ammassata nella sala viene rapita da lui. Per tutta la durata di un pezzo, non riescono a vedere il suo volto. Egli è inesorabile: non è concessa sosta. La sua schiena sta sempre dinanzi agli ascoltatori come se fosse la meta. Se durante l'esecuzione di un pezzo egli si voltasse, anche una volta sola, l'incantesimo sarebbe spezzato. Il cammino che gli ascoltatori percorrono non sarebbe più un cammino: essi siederebbero delusi in una sala immobile. Ma si può essere certi che il direttore non si volterà. Un mestiere difficile ma esaltante: il suono prodotto dagli esecutori è aggregato e coordinato dal gesto silenzioso ma eloquente del direttore. Il suo strumento è l’orchestra intera: col suo cenno, farà sì che loro, tutti insieme, conferiscano alla partitura, pur sempre la stessa, nuances di volta in volta diverse. La sua abilità e la sua arte devono gestire ritmo, sonorità orchestrale ed interpretazione. Immaginate la difficoltà di tenere insieme decine di elementi, di gestirne gli attacchi, i crescendo e i diminuendo. L’unico suo strumento di lavoro è il gesto, che deve essere il più conciso e chiaro possibile. Di fondamentale importanza risulta quindi essere la comunicazione. Il direttore deve, durante le prove, dialogare con la sua orchestra e i suoi solisti, comunicando loro la visione globale ch’egli ha dell’opera, per facilitare a tutti lo svolgimento del proprio lavoro. La qualità del suono ch’egli vuole ottenere dagli strumenti e soprattutto l’equilibrio dei vari comparti costituiscono l’unità di intenti della musica. Il direttore deve, con fermezza, autorevolezza ed educazione, uniformare tutto il complesso alla sua visione. È suo l’onere del superamento dell’individualità per arrivare a fare musica tutti insieme. Egli è il responsabile della magia che si crea in sala, colui che dà il colore e vi fa venire i brividi, l’elemento che filtra la musica attraverso il suo sentire e la esprime con il suo corpo, coniugando tecnica ferrea ed emozione. È il direttore che crea l’armonia, quella sintonia perfetta che esiste tra lui, l’orchestra, il coro ed i solisti, e nessun altro. È questo il miracolo della musica, ogni volta che l’ascoltiamo scopriamo qualcosa di nuovo, ci stupisce continuamente perché è fatta di emozioni pure, da e per gli esseri umani.
L’allenatore non può essere tutto questo, non può avere questo lusso, per un solo motivo che forse a tanti, con colpevole superficialità, sfugge. Egli deve affrontare la costante variabile più pericolosa: quella di avere in campo avversari d’ogni genere! Il direttore d’orchestra invece non ha nemici, non deve badare a condizioni meteo sfavorevoli, né a infortuni e la “prima” è quasi sempre la copia perfetta della prova, mentre non esiste una partita uguale ad un allenamento. Avete mai visto un violinista che nel bel mezzo della Sesta Sinfonia di Beethoven si sloga un polso? Immaginate per un attimo la Filarmonica di Berlino diretta da Herbert von Karajan, come dire la più forte squadra del mondo allenata dal mister dei mister. Ebbene, piazzate seduto accanto ad ogni professore d’orchestra un rompiscatole che fischietta o che suona un altro strumento in totale disarmonia. Impossibile, non potrà mai accadere: inutile immaginare una variabile fuori dai confini della realtà. E se mai accadesse il direttore manderebbe all’aria il concerto, evitando magre figure.
All’allenatore invece può succedere tutto questo e altro, come ad un vero e proprio condottiero, e di certo non può ritirarsi. Il generale Motta, nella battaglia di Lipsia ha dovuto superare ostacoli che avrebbero fatto alzare la bandiera bianca a chiunque altro. Probabilmente aveva in mente la famosa frase del Maresciallo di Francia Ferdinand Foch durante la Prima Battaglia della Marna: «Mon centre cede, ma droite recule, situation excellente. J'attaque!»
Cannonate su tutti i fronti: il gravissimo infortunio al ginocchio di Bremer e il guaio muscolare a Gonzalez dopo soli dieci minuti; concessione di un rigore contro e non a favore; pali e traverse; espulsione del portiere Di Gregorio, giocando una quarantina di minuti in inferiorità numerica; per due volte in svantaggio; sedici minuti di recupero tra primo e secondo tempo!
Altro che direttore d’orchestra! Thiago Motta, superando ostacoli che Richard Wagner non immaginava neppure quando dirigeva il suo Tannhäuser, è “semplicemente” l’allenatore della Juventus, squadra nata in una città sormontata da elmi, sciabole e cimieri, che a dispetto di un gran generale che si chiamava Napoleone Bonaparte, a Lipsia ha vinto, se non la Battaglia delle Nazioni, una partita di calcio che rimarrà nella storia bianconera, assieme alla stoccata prima e alla sciabolata poi del centravanti serbo, e al geniale colpo finale di un folletto portoghese capace con un incantesimo di rendere vero ciò che poteva restare soltanto un sogno.
Roberto De Frede