
Una gestione sciagurata, agevolata da divisione, timore e assuefazione. La rinascita non può prescindere da una rifondazione culturale...
La realtà può essere dura da accettare, ma per onestà intellettuale va affrontata. Dietro il fallimento della gestione Capriola, a nostro avviso, si celano anche le fragilità di una piazza vittima delle sue divisioni. Un pubblico che, in contrasto con la sua storia di dedizione, perseveranza e fermezza, questa volta non è riuscito a contrastare il declino imposto da una dirigenza irresponsabile, la cui gestione ha condotto il calcio a Torre del Greco all'inesorabile epilogo dell'esclusione dal campionato per inadempienze economiche verso i propri tesserati. Questo fallimento societario ha generato un'umiliazione collettiva, trasformando la passione in un sentimento di impotenza e vergogna, con la città e i giocatori esposti a un triste spettacolo nazionale.
Il problema non si limita alla sfera sportiva. Una retrocessione o la fine di un ciclo possono essere eventi fisiologici per una realtà consapevole che la terza serie non rappresentasse più il suo habitat naturale, bensì un traguardo da difendere con determinazione il più possibile. Tuttavia, il vero dramma risiede nel fatto che il tracollo non è stato determinato solo dai risultati sul campo, ma da una gestione societaria scellerata che ha trovato terreno fertile nelle fragilità e spaccature all'interno dell'ambiente. Una tifoseria che non è riuscita a difendere la propria libertà di espressione e di critica, assuefatta a una realtà inaccettabile senza la forza di ribellarsi, mentre la dirigenza sfruttava cinicamente queste fragilità, alimentando le fratture già presenti dopo la fine della precedente presidenza.
La sconfitta più grande per Torre del Greco, infatti, non è tanto la radiazione, quanto l’aver permesso che questa società si imponesse in modo prepotente, attraverso le intimazioni di denunce e querele, attraverso blocco dei tifosi più critici sui canali di comunicazione ufficiali, finanche entrando nella vita personale di alcuni giornalisti, attraverso promesse puntualmente disattese, senza una reazione collettiva, forte e compatta. In altri momenti, si sarebbero alzate voci di dissenso, ovviamente sempre in modo pacifico, con striscioni come “Questa società non vale un euro”, come avvenne ai tempi di Moxedano. Un tempo, ci si sarebbe mobilitati in massa per chiedere spiegazioni alle istituzioni locali, pretendendo chiarezza su come una società morosa potesse continuare a utilizzare una struttura comunale senza conseguenze. In passato, il marchio e il logo sarebbero stati strumenti di pressione per ottenere rispetto e trasparenza dagli imprenditori che si avvicendavano alla guida del club.
Questa volta, però, la reazione non c'è stata. A parte qualche voce isolata, per lo più a mezzo social, la maggior parte della tifoseria si è progressivamente allontanata dallo stadio, cedendo alla rassegnazione. E, dispiace dirlo, senza che nessuno si offenda, ma a nostro avviso anche una parte della stessa ha addirittura favorito questa deriva. Sin dai primi segnali d’allarme, quando giornalisti locali e tifosi sollevavano dubbi e perplessità sulla gestione societaria, alcuni hanno scelto di ignorare i sintomi evidenti di una crisi imminente, difendendo acriticamente una dirigenza che si è rivelata inadeguata e irresponsabile. Piuttosto che ascoltare e riflettere, si è preferito attaccare chi cercava di avvertire: “State attenti, questo modo di operare è pericoloso”.
Forse, con un intervento tempestivo, si sarebbe potuto evitare questo epilogo. Forse no. Ma almeno si sarebbe lottato con dignità. Invece, ci si ritrova oggi tra le macerie di un disastro che va ben oltre il mero risultato sportivo. Pertanto, la rinascita, qualunque sia la categoria da cui si ripartirà, dovrà passare per una rifondazione culturale del tifo corallino. Perché quando una comunità smette di interrogarsi, di analizzare criticamente la realtà e accetta passivamente qualsiasi imposizione pur di continuare a godersi lo spettacolo paventato, se spettacolo lo si può definire, finisce per diventare schiava di un sistema inquinato e, senza rendersene conto, complice del proprio fallimento.







