Pepito Rossi e Batistuta, il primo febbraio come Natale viola
I latini la chiamavano Traditio Lampadis. La conoscenza e l'arte, intese come una fiaccola, da tramandare in coincidenza di un avvenimento che lega per sempre due personaggi. Un concetto parecchio mistico, lontano dal cinismo dei giorni d'oggi, che ci torna buono però per parlare di due figure apicali della storia della Fiorentina. Siamo a febbraio del 1987 e mentre un ventisettenne di Reconquista, Argentina settentrionale, deve prendere una decisione che gli cambierà la vita: rimanere a Reconquista, con Irina, giocare a basket, una vita già apparecchiata fatta di lavoretti saltuari e stabilità, o seguire un certo Jorge Griffa, che ne ha intercettato il talento per il pallone (non quello a spicchi) e lo vuole portare a Rosario, capitale del Fútbol. Alla fine - i tifosi viola non smetteranno mai di ringraziare il vecchio Griffa, il ragazzo sceglie la via di Rosario, del Newells Old Boys e di una carriera che lo condurrà nell'Olimpo del calcio mondiale. Negli stessi giorni a Teaneck, New Jersey, da genitori italiani nasce Giuseppe Rossi. Mentre il primo, che per chi ancora non l'avesse capito si chiama Gabriel Omar Batistuta, comincia una nuova vita, il secondo viene alla luce. Teaneck e Reconquista sono distanti più di settemila chilometri. A loro volta, sono divisi da Firenze da oltre diecimila chilometri e un Oceano in mezzo. Ma sono i poli in cui si è fatta la storia recente della Fiorentina.
A distanza di trentotto anni dal primo febbraio 1987, Firenze e i fiorentini si trovano a festeggiare nuovamente il "Natale Viola". Perché, in periodi e con consistenza diversa, Gabriel Omar Batistuta (1 febbraio 1969) e Giuseppe Rossi (1 febbraio 1987) sono stati tante cose, forse tutto. Esponenti di due generazioni di tifo, soprattutto: perché spesso il padre, aggrappato ancora ai ricordi della chioma bionda e di quel numero nove che "smitragliava" in giro per l'Italia e l'Europa, si è rivisto negli occhi del figlio. "Guarda babbo, come Pepito". Un nome, un soprannome, che è vivo nella memoria di tanti, a distanza di tredici anni da quella stagione d'Epifania per il numero quarantanove in viola.
C'è da puntualizzare che Batistuta e Rossi appartengono a due categorie e due unità di misura diverse: il primo di reti in viola ne ha segnate più di tutti, 208 in 333 gare. Anche per i capricci del fato e due ginocchia troppo fragili, il secondo è stato solo un accenno della grandezza del primo. La differenza sta nella durata - Bati per tutti gli anni Novanta, Pepito solo per sei mesi -. E così ai tanti "Gabriel" nati da queste parti a fine anni Novanta non corrispondono altrettanti "Giuseppe". Non si sono mai incrociati e, al di là del compleanno che condividono, hanno poche cose in comune, anche a livello calcistico, tanto che in un ipotetico attacco da libro cuore starebbero alla perfezione l'uno accanto all'altro. C'è qualcosa però che li rende speciali allo stesso modo: l'ineluttabilità che hanno posseduto in maglia viola. Batistuta per almeno tre o quattro stagioni, Rossi solo per un semestre: ma in quel periodo i tifosi sapevano che, bene o male, si partiva con un gol di vantaggio, una sensazione provata solo un'altra volta nella storia (con quel Luca Toni edizione 2005/06).
Ma meglio di Luca Toni, Bati e Pepito rappresentano una grossa fetta di storia di un club che si è sempre considerato maggiore rispetto a quello che aveva in bacheca. Sono la Fiorentina della Grande Bellezza, del vorrei ma non posso, due splendidi sogni a metà infranti all'improvviso. E' successo all'argentino il 7 febbraio 1999; quindici anni dopo, il 5 gennaio 2014, è capitato a Rossi. Due infortuni che hanno cancellato i sogni di gloria di una città. E che ne hanno aumentato il mito: perché i sé e i ma sono il patrimonio dei bischeri ma anche dei sognatori. E quindi non è difficile che nei discorsi di qualche tifoso, a seconda della generazione d'appartenenza, ancora oggi, dopo un po' si torni a rigirare la lama nella ferita. E a pensare a cosa sarebbe successo nel '99 se Bati non si fosse fatto male, stessa cosa nel 2014 per Pepito. Due campioni immersi in un'aura di nostalgia. E, come scriveva Fernando Pessoa, non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai state.