Luca Serafini: “Il mio amico Idris”
Nella seconda metà degli anni Settanta, la mia famiglia si trasferì da Milano a Brescia per motivi di lavoro di mio padre. Frequentai solo due anni il liceo, perché quasi da subito fui completamente assorbito dal lavoro: la mattina presto in redazione al giornale che usciva nel pomeriggio (“La Notte”), poi la tv, poi la radio…
Stavano nascendo le emittenti private, le “locali”, e in provincia avevano bisogno di galoppini che imparassero il mestiere, pagati quattro lire. Mi affibbiarono la cronaca nera, una palestra impagabile per l’apprendista giornalista, ma per passione la domenica mi facevo accreditare alle partite del Brescia, quello allenato da Gigi Simoni con Malgioglio, Podavini, Jachini, Guida, Salvioni, Penzo…
In tribuna stampa a Mompiano conobbi Idris. Era un personaggio strano, sopra le righe, nel vestire e nei commenti. Gridava. Si arrabbiava come un matto, faceva ridere tutti perché le imprecazioni erano in dialetto bresciano. Qualche antico bucaniere, i giornalisti più attempati, erano un po’ insofferenti e qualche volta lo riprendevano più o meno bonariamente, perché aveva sempre il tono della voce molto alto anche quando sussurrava.
Mi prese in simpatia perché ero il più giovane di tutti e perché mi sedevo sempre vicino a lui, anche se non capivo bene se lavorasse per una radio o una tv: “Sono un giornalista deejay”, mi disse una volta al chiosco della tribuna, nell’intervallo di una partita. Seppi solo che era arrivato in Italia dal Senegal, anche se era originario del Gambia, si era laureato a Perugia poi si era trasferito a Brescia: “Era una città ricca, piena di discoteche, dove sbocciavano radio e tv private”, mi disse qualche tempo dopo. L’ideale per un giornalista deejay.
Sbarcare il lunario non era facile comunque, per uno che aveva lasciato in Africa una famiglia con una ventina di fratelli e sorelle. E’ stata la prima persona conosciuta nella mia vita a chiamare tutti fratello e sorella, non per spirito francescano, ma per amore di aggregazione. Era spontaneo anche in questo. Così, conversando, gli suggerii di presentarsi a mio padre, sempre in cerca di venditori. Nacque tra loro un rapporto molto cordiale, diventato intimo nel tempo, molto al di là del lavoro. Di conseguenza, si cementò anche la nostra amicizia, e capitava che frequentasse la mia famiglia, per un pranzo, una cena…
Idris era una persona genuina, allegra, passionale. Si è dovuto arrangiare, prima di avere successo: lo faceva recitando, sorridendo, circuendo l’interlocutore. Aveva un linguaggio colorito, non chiedeva mai scusa se diceva qualcosa fuori posto, considerando normale, naturale, fisiologico sbagliare qualche volta, senza bisogno di star lì a perdere tempo riconoscendo colpe futili. Questo però gli creò qualche problema, da giornalista, nonostante il politicamente corretto molto di là da venire, così il suo primo programma di successo sulle reti bresciane fu “Tele Vù Cumprà”, dove un nero, lui, si rifiutava di comprare da un ambulante bianco, trattandolo male in dialetto bresciano. E’ diventato infine un uomo di spettacolo, in un mondo in cui il suo modo di fare esuberante godeva certamente di più spazio e più libertà.
Trascorrevamo lunghi periodi senza che ci si vedesse, ma grazie ai social (Facebook soprattutto) e agli sms qualche volta ci si parlava, anche di recente, senza perderci di vista. E quasi sempre ricordava mio papà.
La sua juventinità lo ha portato al successo in “Quelli che il calcio”, ma la sua squadra del cuore è sempre rimasta il Brescia. Porterò con me, nel cuore e nei ricordi, questo guitto irrefrenabile, acuto, intelligente, ironico, borderline, un ragazzino che ha deciso tardi cosa fare da grande, ma che – per me – grande è stato dal primo momento in cui ci incontrammo.