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Cristiano Lucarelli, una carriera con il Livorno sempre nel cuoreTUTTO mercato WEB
© foto di Image Sport
ieri alle 20:55Storie di Calcio
di TMWRadio Redazione

Cristiano Lucarelli, una carriera con il Livorno sempre nel cuore

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Quella tra Cristiano Lucarelli è Livorno è più di una storia d'amore. E' un legame indissolubile, viscerale, che ti porta ad avere degli scontri anche ma che è vero e sincero. Livorno è casa per lui, ma è stato lungo il viaggio che lo ha riportato a casa. 

E Lucarelli a Storie di Calcio, trasmissione di TMW Radio, ha parlato subito del suo amore per il calcio: "I miei a sei mesi mi hanno cominciato a portare allo stadio a vedere il Livorno. E' lì che è nato qualcosa di viscerale, che mi ha portato poi ad indossare la maglia amaranto anche a petto nudo, perché ce l'ho tatuata sulla pelle da sempre. Per come vivevamo Livorno in quei tempi, l'unico diversivo era il calcio. La domenica mattina ci si svegliava sapendo che si andava allo stadio, lo aspettavi tutta la settimana questo. Era un segno di appartenenza forte, bello. Se nasci e decidi di tifare Livorno, hai deciso che avrai pochissime gioie e la normalità sarà avere delle delusioni. Ma non mi pentirò mai di questo".

Classe '75, muove i suoi primi passi da calciatore nelle giovanili del Carli Salviano e successivamente nell'Armando Picchi. Nel 1992 il passaggio al Cuoiopelli il debutto nel Campionato Nazionale Dilettanti e poi lo sbarco al Perugia, dove viene impiegato nel campionato Primavera e poi in Serie C e B. "La mia era una famiglia povera, a quei tempi mio papa lavorava poco in porto, c'era poco lavoro. Per garantirci uno stipendio certo decise di fare il camionista, e questo lo portava spesso via da casa. I miei genitori li ho sempre visti discutere per i soldi, ma è stata la mia fortuna. Ci hanno insegnato tanti valori, il dovere di un padre di non far mancare nulla alla propria famiglia. E soprattutto quella fame e cattiveria che anche se avevi sempre la paura di non farcela, sapevi che ce l'avresti fatta. Era un'ossessione, perché pensavo: o questa o una vita di sofferenze. Mi ricordo che viaggiavo con lui a volte sul camion e a volte gli dicevo 'va troppo piano, quando diventerò giocatore ti comprerò una Ferrari'. Non gliel'ho mai comprata, ma un Mercedes. E la soddisfazione per esserci riuscito è stata la stessa. Ci sono stati dei momenti di difficoltà, mi sono chiesto se ero così bravo per riuscire a diventare un buon calciatore e garantirmi una vita senza patemi alla mia famiglia...".

E l'occasione per capire che era veramente bravo arrivò nel 1998: dopo le esperienze con Cosenza, Padova e Atalanta, viene chiamato al Valencia di Claudio Ranieri: "Avevo già disputato un campionato di Serie A con l'Atalanta, ero già in una fase comunque di crescita della mia carriera, dove i dubbi sulle mie potenzialità un po' erano stati messi da parte. Aver partecipato già alle Olimpiadi di Atlanta fu già una grande emozione. Quando poi a 21 anni ti prende l'Atalanta, un club che ha grande fiuto con i giovani, è tanta roba. Già lì mi dissi che questa era la mia squadra. Poi quando mi prese il Valencia per me fu la consacrazione, anche se essere uno dei primi italiani andare all'estero non era visto bene. All'epoca il campionato italiano era il più forte, chi andava fuori era visto come se fosse a fine carriera, oggi invece è esattamente il contrario. Ranieri era un allenatore concreto. Vincemmo la Coppa del Re, arrivammo terzo e ci qualificammo per la Champions League, arrivammo ai quarti di Coppa UEFA ma non eravamo troppo apprezzati perché giocavamo all'italiana, lì c'era già il tiki taka. Però ricordo che battemmo 6-0 il Real Madrid nella semifinale di Coppa del Re, battemmo anche il Barcellona. Una stagione davvero entusiasmante ma venivamo fischiati perché eravamo visti come dei catenacciari".


Poi il ritorno in Italia, al Lecce, merito anche di Pantaleo Corvino: "Il mio infortunio infortunio incise. Poi Ranieri andò via e arrivò Hector Cuper, io venivo da sei mesi di inattività e pensai che in quel momento il calcio italiano era il più importante e dovevo rientrare per far vedere che ero vivo. Rientrai in prestito, perché Cuper cercò di trattenermi ma io gli spiegai i motivi della mia partenza. Corvino venne a prendermi a Valencia per portarmi a Lecce. E' stato significativo come si presentò. Ci vedemmo in aeroporto e mi disse subito che mi prendeva perché non aveva incontrato nessuno che avesse parlato bene di me. E visto che lui faceva le 'operazioni al contrario' e gli andavano sempre bene, mi voleva per il Lecce. E per questo accettai. Nella mia lunga carriera mi ricordo tre gruppi particolarmente uniti: quello del Valencia, dove tutti erano coinvolti, anche le famiglie, il Lecce, con uno spogliatoio granitico, e poi il Livorno della promozione in B e del primo anno in A". 

Poi, dopo due stagioni a Lecce, altre due al Torino prima di approdare finalmente a casa, al Livorno: "Il Torino lo avevo messo nel mirino, perché si avvicinava al mio modo di vivere il calcio, con passione. Sposai immediatamente questa possibilità, il primo anno andò bene ma il secondo ebbi diversi infortuni e vissi una involuzione tecnica e ci fu la retrocessione. Mi vergognai a ripresentarmi dopo una stagione del genere, e lì arrivò la proposta dell'Udinese. Ero però talmente rimasto male che sentivo che avevo bisogno di casa. Il Livorno era arrivato in Serie B e fu come quando due calamite si attraggono, era impossibile che qualcuno ci staccasse e quindi decisi che era arrivato il momento a 28 anni di provare a fare quello che avevo sempre desiderato da bambino, portare il Livorno in Serie A. E ce la facemmo, con una squadra dove ognuno era disposto a difendere l'altro. Fu un percorso incredibile, che ci portò addirittura in Coppa UEFA. Solo oggi mi rendo conto cosa rischiai. Se fossi andato in Serie B senza rendere veramente, sarebbe iniziato il mio declino, invece lì ho ritrovato me stesso. Partì veramente la mia seconda carriera, che mi portò di nuovo ia alto, anche in Champions, con lo Shakthar, a Parma e al Napoli, dove ho chiuso la mia carriera. A Napoli ci sono stato benissimo, sapevo che andavo a fare il terzo-quarto attaccante ma accettai, perché mi piaceva come piazza. E' una piazza riconoscente, giocai poco ma la gente apprezzò il mio lavoro per cercare di creare un gruppo forte. Ho ricevuto dando davvero niente, perché segnai solo un gol. Ed è stato un premio per me".

E sulla Nazionale e l'occasione mancata nel 2006 ha confessato: "E' un rimpianto perché numeri alla mano meritavo. Ho fatto capocannoniere nel primo anno col Livorno, arrivai poi dietro a Totti, segnai 93 gol in 4 anni e ovvio che pensano di meritare di far parte del gruppo. Partecipai fino all'ultima pre-selezione di quel Mondiale, poi però Lippi mi chiamò e mi spiegò la decisione di portare altri attaccanti. Ci rimasi male ma avevo la coscienza a posto, perché di più non potevo fare. Potevo essere anche io campione del mondo, è un rimpianto e sarei bugiardo se dicessi di no. Ma ho fatto le mie esperienze. Giocai una UEFA col Livorno e rifiutai lo Zenit, perché dissi quando mi ricapiterà a me e al Livorno di giocare una coppa del genere". Perché certi amori valgono più dei soldi...