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Milan: ci sono alcune cose da dire. Inter: non è lo 0-6 a fare la differenza. Roma: l’inaccettabile accettazione della mediocrità. Bologna: il diritto di Italiano. E un’ode a GabrielloniTUTTO mercato WEB
Oggi alle 08:00Editoriale
di Fabrizio Biasin

Milan: ci sono alcune cose da dire. Inter: non è lo 0-6 a fare la differenza. Roma: l’inaccettabile accettazione della mediocrità. Bologna: il diritto di Italiano. E un’ode a Gabrielloni

Ho visto il Milan perdere la sua identità, quella di un club che ha storicamente spiegato agli altri “come si fa” e ora si ritrova a non sapere come si organizza una festa. O a fottersene, che è pure peggio. Una proprietà assente nel giorno dei 125 anni è una proprietà che se ne fotte e la scusa ufficiale (“lasciamo spazio a chi ha scritto la storia”) è credibile come l’offerta dei divani che scade puntualmente ogni domenica.
Una dirigenza che si presenta alla cena per i festeggiamenti e entra dalla porta secondaria è una dirigenza che si commenta da sola, un’organizzazione che sceglie di “apparecchiare” un red carpet di fronte ai suoi tifosi inferociti, pure.
Sembra tutto fatto a caso o con estrema superficialità. E “sembra” lo mettiamo perché in fondo siamo a due passi dal Natale.
A tutto questo aggiungiamo la gestione di un tecnico, Fonseca, che ha tante ragioni (è solo, altroché se lo è) ma ha anche il torto di aver proposto costantemente formazioni più deboli rispetto a quelle potenziali. E lo ha fatto per questioni disciplinari, per carità, solo che lui non è il preside di una scuola media, è un tecnico che deve portare risultati. E i risultati non passano dalle punizioni ai giocatori più forti, ma dalla capacità di farsi seguire da lor signori.
Qua e là gironzola sempre la stessa stucchevole domanda: “Di chi è la colpa?”. E la risposta è l’unica cosa veramente chiara di questo momento in casa rossonera: di tutti.

Hanno rotto le balle a Italiano perché ha osato festeggiare per dieci secondi una vittoria contro la sua ex squadra. Non ha tirato una pedata nel culo al David di Michelangelo, non ha sputazzato nell’Arno, non ha detto “Viva Manzoni, Dante brutto”, ha esultato con i suoi nuovi tifosi perché strafatto di endorfine. Hanno trasformato questa cosa in un “caso”, perché nel 2024, in piena e rovinosa era “politicamente corretta” non si può più neanche gioire per aver fatto bene il proprio lavoro. Siamo allo sbando totale.

La grandezza dell’Inter non passa dallo 0-6 all’Olimpico, o comunque non solo. Che l’Inter sappia giocare un calcio di altissimo livello è cosa chiara a chi disponga di almeno mezza diottria, che avesse le palle per replicare a un inciampo, invece, non era ancora chiaro a tutti (gli infedeli non mancano mai).
Ecco, la risposta alla sconfitta in Champions ha mostrato qual è la differenza tra una squadra forte e una “grande squadra”. L’Inter è una grande squadra perché accetta l’inciampo e rimedia la volta successiva. E lo fa giocando una partita intelligente, di attesa iniziale e ferocia in corso d’opera. Inzaghi e il suo staff hanno messo insieme qualcosa di raro e bellissimo e se qualcuno ancora non se ne è accorto, beh, ha un problema che è suo e solamente suo.

Ps. Nelle ore in cui Toni Kroos (mica Sella e Cavallo) diceva “In Italia giocherei nell’Inter, una squadra grande, organizzata che sa imporre ovunque il proprio gioco” c’è chi riusciva a fare polemica per un rigore giustamente assegnato all’Olimpico. O quantomeno provava a innescarla. E non parliamo di tre pirletti al bancone del bar, ma di grandi pensatori del calcio. Non guariremo mai.


La crisi della Roma si riflette nel caso-Dybala, quello di un giocatore che medita sulla possibilità di levare le tende in direzione Galatasaray. Anche la Roma è una società scioccamente amministrata all’americana (“scioccamente” perché gli americani non hanno la modestia e la lungimiranza di capire che se vogliono ottenere risultati in Italia, devono “abbassarsi” al nostro livello), ma in questo caso c’è dell’altro. L’atteggiamento dei giocatori nel secondo tempo di Como-Roma è del tutto inaccettabile. Da una parte c’era una squadra ricca (di idee) e affamata (di punti), dall’altra 11 zombi che nemmeno ci hanno provato. Perdere fa parte delle cose del calcio, ma non provare nemmeno a combattere è inaccettabile perfino a un torneo di Scala40, figuriamoci in un match di Serie A.

Lookman ha vinto uno stra-meritato Pallone d’Oro Africano. C’è chi invece di dirgli “bravo” lo ha sfottuto per l’abbigliamento. Ebbene, ha avuto molto ma molto ma molto più stile lui di tanti altri suoi colleghi fotografati alle rispettive feste natalizie. Si sono intravisti giocatori e compagne acchitati come Fantozzi e Filini alla celebre cena della Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Agghiaccianti.

Si chiude con Alessandro Gabrielloni, amici cari. Gabrielloni è l’ultimo esemplare di una categoria ormai scomparsa, quella dei giocatori con i maroni cubici. E i maroni cubici ti permettono di ignorare e poi zittire tutti quanti, anche quelli che da anni ti dicono “tu in Serie A non ci puoi stare”. Gabrielloni è un ragazzo che ha creduto in se stesso e ha trovato un club - il Como - che ha creduto in lui. Gabrielloni c’era con il Como in Serie D, poi in Serie C, poi in Serie B, ora in Serie A. E ha segnato in D, C, B e ora pure in A davanti a Keira Knightley. Gabrielloni poteva andare altrove a cercare spazio, ha scelto di restare sul lago e se lo è guadagnato, lo spazio. Gabrielloni prende 4 soldi rispetto ai suoi compagni di squadra e di categoria, ma se ne fotte, perché può guardare colleghi più ricchi e celebrati di lui e dirgli “Io sono una bandiera. E l’altro giorno ho pure fatto un gol con i controcazzi”. Evviva Gabrielloni che lunedì, a due giorni di Natale, andrà a farsi un giro a San Siro alla faccia di chi gli vuole male.