La Juventus e i bianconeri: la forza della prudenza e il coraggio di sognare
Al momento, e non è poco, non ci resta che osservare con occhi benevoli questa nuova Juventus in continua evoluzione, evitando se possibile paragoni troppi forti con il passato che potrebbero da un lato provocare delusioni e dall’altro capogiri. Lo sapremo solo a tempo debito se questa Nuova Signora di Motta avrà ricordato la Vecchia Signora del quinquennio d’oro degli anni Trenta; quella vincente e danese del dopoguerra con Karl e John Hansen e il magico Praest; quella operaia a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta incastonata dai tre gioielli che rispondevano ai nomi di Sivori, Charles e Boniperti; la rivoluzionata, giovane e italiana degli anni Settanta; la stellare di Platini, degli azzurri campioni del mondo e del Trap; l’imbattibile e intercontinentale di Del Piero e Zidane timonata da Lippi; quella dei nove scudetti di fila allenata dagli odiosamati vincenti mister. Oppure, ma diciamolo qui a bassissima voce, se a stuzzicare la memoria sarà quella guidata da Sandro Puppo nel 1956, una delle annate più nere della storia bianconera; quella di Parola del 1962 che segnò la brusca fine del ciclo di successi del magico trio; o quella del calcio gazzosa di Maifredi del 1991.
Intanto cerchiamo di essere tifosi virtuosi e obiettivi, con la testa alta e lo sguardo fiero, cercando di "non desiderare niente di troppo": Μηδὲν ἄγαν, era una delle prescrizioni poste anticamente sul tempio oracolare di Apollo a Delfi, fatta propria dalla saggezza classica, la quale ruotava attorno a parole chiave quali misura, limite, temperanza, lontananza dagli estremi, rifiuto degli eccessi, equilibrio. Questi in seguito saranno tutti valori che contribuiranno a definire la temperanza cristiana come una delle quattro virtù cardinali insieme a prudenza, giustizia e fortezza.
Orazio ci consegna la celeberrima sentenza: "Vi è una misura in tutte le cose" (Satire, 1, 1, 106: Est modus in rebus) e Seneca riconosce un modus naturalis, "un limite imposto dalla natura" (Lettera 119, 10), per cui tutto quanto la eccede è precario e non necessario (119, 2: quidquid naturam excedit [...] precarium, non necessarium). L'uomo classico giudicava positivo il finitum, lo spazio finito, limitato, controllabile; negativo l`in-finitum, il non finito, non misurabile, non controllabile; per questo, sfidare i limiti della natura, le terre inesplorate, la dimensione dell'ignoto era ritenuto un sacrilegio (nefas). Siamo di fronte a un'etica diametralmente opposta a quella dei nostri giorni, caratterizzata dalla ricerca di esperienze estreme e dalla delegittimazione dei limiti, dall’essere certi di poter fare e avere tutto nell’immediato, tralasciando fatica, esperienza e studio.
Il campionato è ancora lungo, la classifica corta, non vedo squadre invincibili, tutto può accadere, ci vuole pazienza e abnegazione per raggiungere gli obiettivi sognati. Sì, perché non desiderare niente di troppo, con tutto il rispetto che si deve al santuario di Apollo, non vuol dire annullare i sogni per paura di fallire, anzi bisogna amare il proprio sogno anche se tormenta. Un uomo senza sogni, senza utopie, senza ideali, sarebbe un mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura: così la pensava Faber, il poeta di Amore che vieni amore che vai.
Dopo la conquista del derby contro il Torino, figlia di una prestazione pregna di personalità e certezze, ancor di più il pallone deve essere visto dai bianconeri come una sfera di sogni, un mappamondo colorato di orizzonti fantastici, raggiungibili e reali. Proprio così, se Oscar Wilde nel suo saggio The Soul of Man under Socialism del 1891 scriveva: «un mappamondo che non includa il paese d’Utopia non è neppure degno che lo si guardi».
Roberto De Frede