Dalla noia bianconera alla gioia rinnovata di quella panchina
Il tempo, dice la Marescialla nel Cavaliere della rosa di Hofmannsthal, è cosa strana. Passiamo così i giorni della vita, e un nulla è il tempo. Ma poi ad un tratto, ecco, altro non sentiamo che lui. Cosa è il tempo? Beh, se fosse solamente quello misurato dagli orologi, fosse pure il Patek Philippe World Time che indossava sul polsino della camicia l’Avvocato, faremmo in fretta a rispondere. Non si tratterebbe d’altro che della durata quantificabile degli eventi. Detto così sono certo che il significato più autentico del tempo non venga neppure sfiorato. Ci dobbiamo avvicinare al tempo seguendo le tracce dei suoi effetti, descrivendo che cosa facciamo noi con il tempo e cosa il tempo fa con noi. Questo tempo bianconero sino al pareggio con il Parma è stato di una noia contagiosa mortale: non si sogna più, non ci si diverte più. La società di calcio Juventus, nata 127 anni fa su una romantica panchina, sembra produca soltanto monotonia, nonostante i tanto declamati programmi di ricostruzione e di future glorie. La noia resta la chiave di lettura di chi non ha progetti, con gli orizzonti troppo stretti anche solo per sognare una ripresa vincente.
L’uomo, a differenza dell'animale è una creatura capace di annoiarsi. Quando si è provveduto al necessario per vivere, rimane ancora un surplus di attenzione che, se non trova eventi, attività a cui applicarsi, si rivolge al fluire del tempo. Il tessuto di eventi, che solitamente è tanto fitto e cela alla percezione lo scorrere del tempo, diviene trasparente e permette di gettare uno sguardo su un tempo apparentemente vuoto. Questo incontro paralizzante con il puro trapassare del tempo prende il nome di noia. La noia ci permette di esperire un aspetto terrificante dello scorrere del tempo; e però lo fa attraverso un paradosso, poiché nella noia il tempo non scorre affatto, al contrario si blocca, dilatandosi in modo intollerabile. Come dice Arthur Schopenhauer, facciamo esperienza del tempo quando ci annoiamo, non quando ci divertiamo.
I calciatori della Juventus stanno raccogliendo tonnellate di esperienza del tempo: in campo si annoiano, non si divertono più, aspettano con ansia il fatidico triplice fischio per tornarsene a casa, mesti e sborniati, e chi si è visto si è visto! La noia annoia: guardandoli dal divano di casa, gli sbadigli dei tifosi superano la rabbia di non rivedere in quegli undici in campo i loro eroi di sempre. Le ultime uscite della compagine bianconera sono state tutte mediocri e balbettanti, anche se qualcuno è stato ingenuamente abbagliato dalle luci di San Siro, con quel rocambolesco pareggio a suon di gol tra scapoli e ammogliati. Una successione di partite, le ultime, in cui non si fa altro che aspettare un cambiamento per infrangere l’adesso e adesso e adesso. La crudeltà della noia: un’attesa vuota e inutile.
C’è bisogno di una immediata inversione che rinverdisca i vecchi tempi gloriosi per riportare da subito vittorie e prestazioni memorabili, semmai riadagiandosi a pensare e riflettere su qualche panchina in piazza della Libertà, a Udine, affinché la Juventus trasformi questo tempo della noia in un tempo dell’inizio di qualcosa di grande. Contro l’Udinese quella noia è stata tramutata all’improvviso in gioia e l'unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante, scriveva Pavese. La Juventus in Friuli ha ricominciato ad essere se stessa…
Come fu quel tempo cominciato su una panchina di corso Re Umberto dagli studenti del liceo classico Massimo D’Azeglio il 1° novembre 1897. Erano di fronte al Caffè Platti, chissà se prima o dopo aver sorbito una tazza di cioccolata calda o gustato un tramezzino con il prosciutto cotto, o quello del contadino con frittata e pollo al curry, mentre Luigi Einaudi, seduto ad un tavolino, leggeva la Gazzetta Piemontese o chissà sfogliava col suo coltellino svizzero appena inventato un libro intonso. Quei ragazzi, sognando, partorirono la Juventus su quella panchina.
La panchina, una sosta, un’utopia realizzata, su di essa si contempla lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti e ci si dà il tempo di perdere il tempo nel modo migliore, comprendendolo e forse fermandolo nell’attimo più luminoso. È proprio così quando in Manhattan una notte, alle quattro di mattina, Woody Allen e Diane Keaton vanno a sedersi su una delle panchine del piccolo parco di Sutton Place: davanti a loro l’East River silenzioso e sullo sfondo, immerso nella foschia della notte, il Queensboro Bridge, avvolti dall’immortale musica di George Gershwin.
Sostare lì su quella panchina significa non farsi trascinare dalla corrente: ovunque si trovi, la panchina è per chi si siede il centro dell’universo, una piega del mondo, non un luogo nascosto ma una zona franca, liberata o salvata, dove semplicemente sedersi è già in sé libertà e consapevolezza di essere ciò che si è e di fare ciò che ci rende felici.
Cara Juventus, ricordati di cacciar via la noia e la monotonia, sii di nuovo te stessa, viva e vincente come ieri pomeriggio, ambiziosa e circondata da orizzonti di gloria, e Noi con Te; non dimenticare che chi nasce su una panchina è eterno, perché le panchine sono fatte di sogni, e il sogno è senza tempo.
Roberto De Frede