Lautaro: "Vivo per il gol ma sto bene così. Il corpo a volte ti presenta il conto"
Il capitano dell'Inter Lautaro Martinez ha rilasciato un'intervista alle colonne dell'edizione odierna de Il Corriere della Sera: "Quando ero piccolo, tornavo a casa da scuola con mio fratello più grande e trovavo il pranzo già preparato da mia madre, che era fuori tutto il giorno a lavorare. La casa era un casino e prima di andare all’allenamento mi fermavo per sistemarla: rifacevo i letti, sistemavo la biancheria da lavare e facevo fare i piatti a mio fratello, perché mi dava molto fastidio vederli sporchi".
La sua rabbia agonistica nasce così?
"Sì, da piccolo io non avevo niente. A volte non sapevo dove avrei dormito la sera. Sono cose che mi hanno marcato come uomo e tutto quello che ho passato cerco di trasmetterlo in campo. Fuori dal calcio, cerco sempre di dare una mano e sono felice di andare a trovare i bambini che non stanno bene: capisco quello che vivono, le loro difficoltà".
Il calcio è stato una specie di medicina per lei?
"Il sogno di diventare calciatore come mio padre l’ho sempre avuto. Ma a 15 anni ho fatto una settimana in prova al Boca Juniors e mi hanno cacciato, dicendomi che non avevo né velocità, né potenza. Quando sono tornato a Bahia Blanca ho detto a papà che volevo divertirmi, lasciare il calcio e cominciare a lavorare. A fine anno è arrivato il Racing, offrendomi un altro provino: ho detto se mi volete vengo, ma prove non ne faccio più. E mi hanno preso".
Poco dopo la famiglia le ha tenuto nascosto i problemi di salute di suo fratello maggiore.
"Sì, questo le fa capire quanto i miei genitori hanno protetto il mio sogno di diventare calciatore. La mia famiglia mi aveva nascosto la malattia di mio fratello, io e lui siamo legatissimi. Mi hanno avvertito quando era già uscito dall’ospedale. E dopo due anni di cure tutto si è risolto. Lui ha dieci mesi più di me, siamo legatissimi e quando io sono andato via da casa ha sofferto tantissimo".
A 18 anni lei era una testa calda e ha dovuto lavorare con gli psicologi.
"All’esordio in prima squadra ho preso due gialli in due minuti per due scivolate: vivevo tutto come una battaglia, perché volevo sempre dimostrare qualcosa. Gli psicologi mi sono serviti tantissimo: a essere più tranquillo, a pensare due-tre secondi in più alle cose e anche nel dialogo con l’allenatore. Dettagli che fanno la differenza".
È uno dei pochissimi calciatori che vive a Brera, nel cuore di Milano. Come si trova?
"È molto comodo per me, anche perché gestiamo un ristorante lì vicino. Esco poco, vado al parco coi bambini, cerco di frequentare posti riservati, perché non è facile girare tra la gente. Sono stato in cima al Duomo per il film sullo scudetto ed è stato bellissimo".
Si è lanciato nella produzione di vino in Argentina, ma il sommelier Barella ne ha certificato la qualità?
"Non ancora (ride), ma è una cosa in cui credo molto. Non l’ho mai detto a nessuno, ma quando ero al Mondiale due anni fa ho perso tutta la vendemmia per un incendio nel deposito: ventunomila bottiglie sono andate in fumo! Me l’hanno raccontato solo a torneo finito, per non farmi perdere la concentrazione. Ma anche queste sono esperienze che ti rafforzano. E i progetti attorno ai vigneti a Mendoza crescono: ci saranno albergo, spa, palestra, negozio".
Senta, all'Inter segnano tutti tranne lei. Le pesa?
"Sono un attaccante e vivo per il gol. Però si deve anche analizzare la partita che uno fa. E io in questi mesi sto giocando più lontano dall’area, perché mi piace far salire la squadra: è una cosa che sto aggiungendo al mio gioco e mi sento bene così".
Anche la posizione di Thuram è cambiata di conseguenza.
"Sì, Marcus sta più centrale e più avanzato, ma non è una cosa studiata: nasce dalla nostra intesa in campo. L’anno scorso spesso era lui che arretrava un po’ o si allargava, adesso tocca a lui fare più gol".
La mancanza di preparazione estiva ha influito su di lei?
"Dopo la vittoria della Copa America sono tornato qualche giorno prima dalle ferie per l’infortunio di Taremi e ho avuto qualche difficoltà: il corpo a volte ti presenta il conto. Adesso però sto meglio".
Si sente mai un robot?
"A volte sì, a volte no: riposare mi piace poco, ma a volte le gambe non rispondono, a volte è la testa che non va. Le due cose devono essere collegate e bisogna essere bravi a gestirsi. L’importante, anche quando le cose non riescono come vuoi tu, è dare sempre il 100 per cento. Questa è una cosa che mi porto dentro e cerco di trasmetterla alla squadra da capitano".