
Deiola: "Critiche sui social? Ho pensato di smettere. Ora ho imparato a non leggere più nulla"
Alessandro Deiola, primo ospite di PodCasteddu, nuovo podcast ufficiale del Cagliari Calcio condotto da Alessandro Spedicati, ha affrontato il tema delle varie critiche ricevute sui social nel corso degli anni. Di seguito le parole del centrocampista rossoblù, sintetizzate da TuttoCagliari.net: "Come le vivo? O meglio, come le ho vissute, mettiamola così. È stato difficile, molto difficile convivere con il paradosso che mi ha portato persino a pensare di smettere. Mi sono detto: "Io questa pressione non la sopporto più, penso di non meritarmela", per quello che ho fatto e che faccio costantemente in campo. Perché comunque io cerco di dare tutto me stesso. Poi, naturalmente, ci sono momenti in cui ti riesce tutto e momenti in cui, purtroppo, no. Ripeto, ci sono stati momenti in cui ho pensato seriamente di smettere. Partite in cui mi sono chiuso in uno stanzino a piangere, perché fa male, fa davvero male sapere che stai dando tutto e magari da fuori non viene percepito. L’errore tecnico, sbagliare un passaggio, un gol: sono cose che succedono. È come un muratore che sbaglia a mettere un blocchetto, lo toglie e lo rimette: noi facciamo lo stesso, alla prossima azione ci riproviamo Però, ci sono tante dinamiche che cambiano tutto. Perché, secondo me, ci sono quattro modi di vedere una partita: dalla TV, dalla tribuna, dalla panchina... e poi dal campo. Il problema è proprio quest’ultimo. Perché chi la vive in campo, anziché vederla in orizzontale, la vive in verticale, con avversari e compagni che ti passano accanto a velocità folli, con scontri fisici con gente di 80-100 kg, con una velocità di pensiero e di movimento che da fuori non si percepisce. Diventa tutto molto più complicato. Inoltre, con i social è diventata una tragedia. Perché ormai la gente non si limita più a commentare l’aspetto tecnico o tattico — che già lascia il tempo che trova, visto che se non sei del mestiere spesso non ha molto senso. Ciò che conta per noi è il sostegno. Alla fine della partita puoi anche dire: "Ha giocato male", ci sta, siamo i primi a fare autocritica. Noi ci riguardiamo le partite, analizziamo le nostre azioni, sappiamo perfettamente se abbiamo giocato bene o male. Non è che non lo sappiamo. Ma quando inizi a leggere insulti alla famiglia, auguri di morte o di farti male... lì non è più un commento. Quello è odio. E non si può far finta di niente. Io ormai ho imparato a non leggere più nulla.
Non leggo più niente. Ho avuto la fortuna di avere accanto mia moglie che mi ha aiutato tanto, dicendomi: "Fregatene, lascia perdere. Se sei arrivato lì e continui a giocare, un motivo ci sarà". Ho avuto la fiducia di tanti allenatori, di tanti compagni. Quindi sì, la critica costruttiva la accettiamo, ma l’odio no. Non va bene. Perché siamo persone come tutte le altre, con sentimenti, che ci stanno male. E spesso questa cosa viene dimenticata. Si pensa che siccome siamo giocatori dobbiamo sopportare tutto, essere dei supereroi. Ma non è così. Vale per noi, come per qualsiasi altra persona pubblica: attori, cantanti, chiunque. Siamo persone e meritiamo rispetto, come noi portiamo rispetto agli altri. Anche perché poi, spesso, le stesse persone che ti insultano, il giorno dopo vengono a chiederti una foto o un autografo. E noi non è che non sappiamo chi ci insulta: lo sappiamo. Però, vedere un bambino che, dopo la foto, se ne va con un sorriso, ci ripaga di tutto. È motivo di orgoglio. E allora andiamo oltre. Bisognerebbe che chi insulta si mettesse nei nostri panni: magari un domani il loro figlio diventerà un calciatore e voglio vedere se accetterebbero gli stessi commenti su di lui. È una considerazione importante, perché qui non si parla più solo di calcio, ma di umanità. Noi abbiamo bisogno di sostegno. Perché anche se siamo in campo, sentiamo tutto. La positività che ci circonda ci aiuta a esprimerci meglio. Ma se alla prima difficoltà iniziamo a sentire fischi e insulti, diventa dura. È vero, ci sono giocatori caratterialmente forti che riescono a fregarsene, ma ci sono anche quelli più fragili, che subiscono tutto questo. E allora magari si limitano, hanno paura di esprimersi, di rischiare. Ed è un limite enorme per il nostro lavoro".







