Clemente di San Luca a TN: "Spiego, anche a Conte, perchè Napoli-Juve non sarà mai una gara come le altre"
Guido Clemente di San Luca, Docente di Giuridicità delle regole del calcio presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Vanvitelli, commenta così il momento del Napoli.
"Ma veramente c’è ancora qualcuno intellettualmente onesto – o che almeno aspiri ad esserlo (perché non meritano considerazione i prevenuti, o prezzolati, autori di storytelling artefatti) – in grado di sostenere che quella fra Napoli e Juventus sia una partita come le altre?
Domenica scorsa, il risveglio è stato dolce, soave, magnifico. Pieno delle emozioni vissute la sera prima. Che non sono quelle di una qualunque vittoria. Perché questi – caro Conte – non sono semplicemente «tre punti» o «altro fieno in cascina». Dopo la partita, camminando per raggiungere la macchina, un signore esce dalla pizzeria con quattro cartoni termici da portare a casa, si gira sorridente verso di noi e dice: «U’ mmamma, sai mo’ comme se ne scennono bell’ sti’ ppizze?». Un’atmosfera unica, sabato sera. Una gioia incontenibile e indescrivibile. Sì, è vero, li abbiamo battuti per il sesto anno consecutivo. E allora? Cosa cambia? Proprio niente. Perché la chiamino pure, con disprezzo, ‘oleografia’ («dipinto privo di originalità»), ma «comm’è doce e comm’è bella, ’a cittá ’e Pullecenella». In cui quella con la Juve non è una partita come le altre.
Ebbene sì, rivendichiamo il diritto di poterci esprimere in modo oleografico («convenzionale e banale, senza originalità ed espressività»): «’o sole, ’o mar’, ’a pizza e ’o mandulin’» ci piacciono più dei sermoni degli snob che professano il perbenismo benpensante, che propugnano il modello «Uè scusa – lavoro, guadagno – pago, pretendo». Quelli la cui puzza sotto al naso sta finendo per riconsegnare il mondo nelle mani dei fascisti, dei razzisti, dei disumani. Quelli che collocano il ‘professionismo’ all’apice della scala assiologica. Che vogliono far passare un ottimo professionista come un «uomo del sud» (unendosi al racconto adulatorio e trionfalistico – perciò non veritiero – della prevalente, piegata, stampa locale), solo perché ha i natali in una regione meridionale, fingendo di non sapere che molti degli emigranti dal Mezzogiorno sono culturalmente ‘asserviti’ al potere della grande fabbrica. Per tutti costoro verrebbe proprio di richiamare il proverbio di recente rievocato da Zaccone nel salutare Kvara: «T’attigge e t’amarigge, ma te canosceno a Parigi?».
Un professionista di livello è come «un falegname bravissimo» – per riprendere la efficacissima metafora del maestro De Giovanni – che, su commissione, ti fa un «cassettone bellissimo», e «viene pagato per il lavoro che ha fatto».
Un lavoro che non si può non riconoscere. Ma mica abbiamo mai negato, di volta in volta, gli indiscutibili meriti del mister (senza però alcuna piaggeria di maniera – quella tipica di chi ‘alliscia’ il padrone –, evidenziandone, dunque, anche limiti ed errori). Ha rivitalizzato emotivamente uno spogliatoio pressoché asfaltato dalle scelte dissennate del Presidente. Ha da subito ricostruito una eccellente solidità difensiva. Fino a Genoa-Napoli, tuttavia, la squadra era essenzialmente ordinata e combattiva, ma priva di gioco offensivo. Da allora in poi, non è più così. Ora siamo, ed in maniera crescente, a pieno diritto in lotta per il titolo.
Fa bene Conte ad invitare a «tenere i piedi per terra». A predicare che «dobbiamo stare zitti». Ha ragione a rivendicare che «con l’Atalanta abbiamo vinto in modo giusto», e a biasimare il mancato «riconoscimento dei meriti», o il pianto, da parte di qualcuno. Ad evidenziare con ironia che «gli altri sono sempre più belli e profumati di noi dal punto di vista mediatico». A spiegare la mistificazione di chi «dice ancora che giochiamo difesa bassa e contropiede». A denunciare l’iniquità di gestione dell’ordine pubblico, i due pesi e due misure nei confronti dei tifosi residenti in regione. Forse non si è ancora ben reso conto che sta guidando il Napoli. Che tutto ciò è parte cospicua delle ragioni per cui Napoli-Juve non è una partita qualunque.
Per lui, invece, non era «speciale», non era tale da portarsi a casa «un particolare ricordo». Insomma, la vittoria con gli zebrati è «motivo di grande soddisfazione» solo perché abbiamo «battuto una grande squadra», e perché abbiamo accresciuto l’«autostima». Da bravo professionista, lui non si lascia travolgere dalle emozioni. E come tale, furbescamente, non denuncia l’ennesimo arbitraggio illegittimo. Chiffi ha sfruttato appieno lo spazio di valutazione (che il ‘sistema’ riconosce praeter legem ai direttori di gara) per indirizzare la partita fischiando falli e comminando ammonizioni «a maglie alterne», vedendosi ben giudicato dagli esponenti della ‘casta’ che occupano le TV, e premiato con la designazione per il derby di Milano.
Comunque, laddove insiste a rimarcare che quanto realizzato fin qui lo si è fatto «senza Osimhen, Kvara e Zielinski, senza contare gli altri», Conte persevera nell’errore. Perché nessuno sottovaluta «cosa stiamo facendo». Ma nemmeno va sopravvalutato. Sì, c’era un «distacco siderale» fra il Napoli dello scorso anno e le altre big. Ma con gli stessi giocatori s’era vinto lo scudetto l’anno prima. È vero che a quella rosa sono state sottratte quattro pedine fondamentali. Ma il Presidente le ha rimpiazzate adeguatamente. Eppure, sull’onda di un infervoramento entusiastico, abbagliati quasi tutti dai risultati esaltanti, è in corso un vero e proprio processo di magnificazione, di glorificazione. Come ha scritto Minervini (in maniera tanto brillante quanto efficace), se oggi dicesse «che i friarielli non stanno bene abbinati con la salsiccia, potrebbe pure convincerci».
Un ottimo professionista, quindi. Però non per questo se ne può fare un alfiere della nostra visione del mondo. Del resto, il mister l’ha ribadito convintamente: «tutte le partite sono speciali». Dunque, va bene. Ne prendiamo atto. Non vuole cogliere cosa, per i napoletani, rappresenti Napoli-Juve. Forse è più chiaro se lo spiego così. Mi è stata inviata una foto di Trump circolata sui social (costruita evidentemente con l’intelligenza artificiale, ma altrettanto chiaramente frutto della brillante, geniale, creatività immaginifica, peculiare della nostra gente) che lo mostra con una targhetta recante la scritta «Juventus has 38 scudetti». Lo stesso effetto del celeberrimo «Giulietta è ’na zoccola». Un’immagine-simbolo: l’icona del male nel mondo che propone l’ennesima ipotesi di ‘negazionismo’. Non esiste l’emergenza climatica. Non vi sono altri generi se non uomini e donne. Gli assalitori di Capitol Hill condannati dai tribunali vanno graziati perché sono «patrioti». La Costituzione americana non prevede il diritto di cittadinanza per nascita. Alla stessa stregua, i due scudetti della Juve non sono stati revocati dalla Giustizia Sportiva per effetto delle sentenze su Calciopoli che hanno accertato cosa avevano fatto. Sia chiaro, qui nessuno nega che a Napoli ci sia anche la camorra. Ma la lotta fra bene e male attraversa qualsiasi luogo o regione, e investe tutto, persino la disputa fra diverse visioni del mondo. La linea di confine che passa fra chi pensa che «si vive per lavorare» e chi invece che «si lavora per vivere» non è la stessa linea di confine che divide bene e male. Dentro ciascuna delle due è dato rinvenire sia l’uno sia l’altro.
Proprio non riesce ad entrare in sintonia con la città (evidentemente, non basta vivere nel centro della sua parte chic). La città ‘porosa’, che costituisce una delle due formidabili energie che alimentano l’attuale potentissima forza della squadra, ben oltre quella (indubitabile ma forse un po’ retorica) della cieca fiducia nel condottiero («Andrei in guerra con questi uomini, so che darebbero tutto»). I gesti caparbi di Simeone, Politano, Di Lorenzo si spiegano assai più guardando il loro ballo finale, mentre cantano coinvolti dalla gente e condividendone la felicità. Con la piena osmosi fra città e giocatori. L’altra energia poderosa, secondo me, è l’anima del piccolo Daniele. Si vede da come esultano Anguissa e Lukakone. Più di qualunque altra cosa, i giocatori sembrano «pronti a buttarsi nel fuoco», e ad andare anche «oltre le proprie possibilità mentali e fisiche», per la città e per il ricordo vivissimo e vivificante di quel piccolo angelo azzurro.
P.S. Adesso tutti compatti col pensiero a Roma, per confermarci. Ultima nota per il mercato. Garnacho e Adeyemi sono forti, ma il loro costo è fuori logica. Forse dovrebbe prendersi qualcuno con un prezzo più ragionevole, e che non rischi di rompere gli equilibri (Berardi no?). Piuttosto, mi pare più serio il problema del tassello difensivo. Comuzzo 40 mln? Ma perché non Ismajli, che è forte, pronto e affidabile e – a quanto si è letto – non costa poi così tanto (8 mln)?