Clemente di San Luca a TN: "Capodichino come Damasco per Conte, travolto dalla passione dei tifosi"
Guido Clemente di San Luca, Docente di Giuridicità delle regole del calcio presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Vanvitelli, commenta così il momento del Napoli.
"Per i tifosi azzurri, quella di sabato prossimo è la madre di tutte le partite. Perché la Juventus costituisce il perfetto prototipo del nostro opposto. Battersi con loro, in qualche modo, rappresenta il confronto con ciò che ben integra, ma a contrario, il senso stesso della nostra esistenza. Un po’ come l’antagonismo fra Robin Hood e lo Sceriffo di Nottingham (una metafora che uso spesso). Noi siamo questo (non solo, ma) anche perché, per converso, loro sono quello.
La vittoria a Bergamo – e in quel modo – ci ha riempito di una soddisfazione inenarrabile. Avevo declinato l’affettuoso invito a veder la partita negli studi di una TV locale. Se non vado allo stadio, devo ‘soffrirla’ in privato. E l’ho vista soltanto con mia moglie. La quale, ogni poco, s’alzava inspiegabilmente per fare non so cosa. Al gol di Lukakone, infatti, era in un’altra stanza. È accorsa preoccupatissima al mio urlo devastante: «Così ti farai venire un infarto!». La profondità della gioia era inversamente proporzionale: all’ambiente dello stadio abitualmente ostile e razzista; all’arbitraggio come di consueto illegittimamente sfavorevole (Hien aduso a picchiare, indisturbato, sulle terga di Romelu, e Neres ammonito per aver subìto lui un fallaccio da giallo!); alla telecronaca di Sky (ma – mi hanno riferito – ancora peggio quella di DAZN) palesemente parteggiante per gli orobici. Insomma, una goduria immensa. Moltiplicata dalle dichiarazioni post-gara di Gasperini, rosicante come mai, e poi dalle ‘amareggiate’ prime pagine dei giornali del dì seguente.
Dopo un anno di autentica follia, siamo tornati ad essere veramente forti. Perché, da Genova in poi, non siamo più semplicemente compatti e tetragoni. Adesso proponiamo anche varietà di schemi di gioco offensivi. Lo abbiamo fatto presente in allora, mentre raccontavano il falso coloro che celebravano, come ‘meritati’, vittorie e punti ottenuti. Siamo stati assistiti dal vento favorevole, da un amichevole kairos. È indispensabile. Ora, però, non è più solamente quello. Perciò siamo in piena corsa per il titolo. E lo si capisce guardando al modo ‘assatanato’ in cui sono entrati Spinazzola, Mazzocchi e Simeone. A conferma dell’anima unitaria e compatta della squadra.
L’entusiasmo dei due raduni di popolo a Capodichino – prima e dopo l’impresa – ha fatto capire inequivocabilmente ai nuovi della truppa e al condottiero cosa significhi per la nostra terra, per l’intera città, la maglia azzurra. Sul tema il mister comincia a dare segnali di sensibilità. Un po’ timidi. È, infatti, generico dichiarare che vede «nei giocatori il senso di appartenenza», e che ciò «è importante perché devono sapere per quale squadra giocano, per quale città, per quale popolo». Questo vale per ogni team. Ancora non s’è pienamente appropriato dell’appartenenza partenopea. Non basta fare il «capopopolo» – come s’è detto –, prendere il megafono e gridare «Forza Napoli». Ovviamente è bene, e non si tratta affatto di «peccati veniali da capopopolo», come li qualificano gli inguaribili snob, che liquidano i gesti con un paternalistico, ritrito, commento di stampo padano: «In fondo anche lui è uomo del sud». Ma stiamo attenti a non cadere in eccessive semplificazioni.
Il mister ha dimostrato grande impegno, confermando le eccellenti attitudini professionali già esibite altrove. Sta percependo adesso, sulla sua pelle, forse per la prima volta, cosa significhi dover sopportare arbitraggi illegittimi. Da qui alla fine sperimenterà quanto questi peseranno sull’esito della competizione. Faccia allora un ultimo sforzo: chiarisca definitivamente che, quando in panchina impreca o esulta, quell’entusiasmo e quella gioia sono (non quelli del professionista di successo, ma) gli stessi di tutti noi tifosi azzurri. Dichiari apertamente il suo amore specifico per la città, per la sua unicità. Dimostri – non soltanto di essere un bravo professionista, ma pure – di aver assimilato l’essenza di Napoli, quella identità inconfondibile, che nulla ha a che vedere con la servile attitudine dei meridionali divenuti ‘sudditi’ della grande fabbrica.
Sabato ha la più ghiotta delle occasioni. Noi siamo ansiosi di poter nuovamente urlare a squarciagola «Chi non salta juventino è!». Sembra profilarsi una perfetta congiunzione astrale. Capodichino come Damasco (rischiando consapevolmente la blasfemia). Travolti lui e i giocatori da due momenti così coinvolgenti, può fare il passo definitivo. Cristianamente, di nessuno si può dire «quello è un uomo perduto». Perché chiunque può cambiare la propria vita in modo anche profondo e significativo. Ed essere, appunto, folgorato sulla via di… Capodichino. Aspetto fiducioso che sfrutti la chance di redenzione, come San Paolo. Battiamo, tutti insieme, la Juventus, nel segno della diversità azzurra.
Così, poi, veramente potremo aprire un «centro di recupero», ma per ricoverarvici chi, con perseverante ostinazione, nega la nostra specificità. Quella ‘napolitudine’ che altri protagonisti della storia azzurra, pur non essendo uomini del sud (Bianchi, ad esempio, o Bigon, Reja, ecc.), hanno saputo cogliere, apprezzare e fare propria.
P.S. Leggendo alcuni commenti alla strepitosa vittoria di Bergamo, mi è venuto in mente uno dei più diffusi proverbi italiani, quello che richiama «il bue che dice cornuto all’asino». Fa specie che, a definire «lazzari del populismo azzurro» coloro che ragionano sforzandosi di non portare il cervello all’ammasso, siano commentatori politici che, solitamente, quanto meno strizzano l’occhio al movimento forse più populista della storia d’Italia (la competizione per il podio è con L’uomo qualunque). Sfugge ad essi, evidentemente, la piena consapevolezza di sé: populisti per antonomasia che vedono in altri il populismo. Un classico. Questo approccio che, in maniera rigida e intransigente (tra il calvinista ed il luterano), snobisticamente predica «la rivoluzione della vittoria permanente», nulla comprende del «popolare», confondendo questo, appunto, col «populista». Lesti come sono, sempre, nel cogliere la pagliuzza nell’occhio altrui, ma incapaci di rinvenire la trave nel proprio. Pronti a sceglier di vedere solo ciò che gli aggrada. Ancora col «decimo posto, con 53 punti e a 41 punti di distanza dall’Inter campione d’Italia», fingendo di non saperne le ragioni e di dimenticare che l’anno prima s’era vinto il terzo, dopo più di trent’anni. È per questo che siamo noi, d’animo cristiano, a chiedere di avere «misericordia della loro cecità».