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Alla Juventus è d’obbligo saper indossare l’abito scuroTUTTO mercato WEB
domenica 5 maggio 2024, 23:59Editoriale
di Roberto De Frede
per Bianconeranews.it

Alla Juventus è d’obbligo saper indossare l’abito scuro

L’abbigliamento è, al contempo, una scienza, un’arte, un’abitudine, un sentimento; l’uomo ha bisogno di eleganza sia nelle azioni che nella postura, perché questa parola è sinonimo di personalità. (Balzac)

Altro che prima, seconda e terza maglia per la prossima stagione, oggi bisogna pensare a rimettere in tiro il vero abito che da sempre ha contraddistinto la Juventus: quello scuro, elegante, nobile. Volente o nolente la Juventus è nata con quel taglio, con gli onori e gli oneri che ne sarebbero conseguiti, e lo porta sempre, a prescindere dalle circostanze, che siano favorevoli o meno. Naturalmente per indossarlo non basta possederlo, ci vuole personalità, un’anima forte e nobile, altrimenti si rischia di cadere rovinosamente nel ridicolo, e le ultime tredici partite di campionato non si sono discostate molto da quell’aggettivo che tanta rabbia procura al popolo bianconero.

«Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frac!» grida il figlio del principe di Salina, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Se Tancredi scoppia a ridere, il principe sprofonda in una cupa meditazione su quell'incarnazione della rivoluzione che sta sopraggiungendo. Tuttavia le sue apprensioni vengono dissipate dall'arrivo del goffo invitato. Se la stoffa è ottima e il modello attuale, «il taglio era semplicemente mostruoso, il verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il cielo in muta supplica, il vasto colletto era informe, e, per quanto sia doloroso è pur necessario dirlo, i piedi del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati». Nella sua inquietante somiglianza con l'uniforme, per la rigidezza delle prescrizioni cui deve uniformarsi, l'abito da sera è un terreno scivoloso per i parvenu.

Pochi sapevano portare il frac come Georges Descrières, quando interpretava Arsène Lupin, il generoso ladro gentiluomo creato dalla penna di Maurice Leblanc. S'intuiva che il lucido cilindro di seta poteva essere pericoloso come la rivoltella celata dal taglio perfetto della sua giacca. Le sue mani riuscivano a stringere i guanti bianchi e il bastone da passeggio con una noncuranza priva d’ogni mollezza. La gardenia gli sbocciava spontaneamente all’occhiello e il papillon sembrava una farfalla di stoffa bianca gentilmente posata sotto il colletto alto. Niente poteva intaccare, dinanzi allo sguardo innamorato di Ingrid Bergman, il virile candore della dinner jacket di Humphrey Bogart in Casablanca e nessuno eguagliava la disinvoltura con cui Fred Astaire volteggiava in frac, facendo vibrare seccamente le code come ali, senza incrinare la quiete glaciale dello sparato o infastidire la candida fioritura dell’occhiello. Uomini leggendari, icone del cinema e della letteratura, come i tanti campioni bianconeri che rendevano l’abito scuro, quello forgiato su misura alla nascita della Juventus, un’opera d’arte.

L’abito scuro limita gli slanci e la gestualità di chi l’indossa, quando costui conosce soltanto jeans e polo a maniche corte. Alla Juventus servono calciatori che sappiano valorizzare e portare in trionfo la leggendaria maglietta, indossando il complicato, naturale, glorioso abito scuro, per differenziarsi sempre e dovunque da tutti gli altri. L’uomo elegante si distingue dai suoi concorrenti grazie alla sua ineguagliabile scioltezza. Nella Ricerca del tempo perduto il narratore ammira l’impertinente eleganza del bel marchese di Saint-Loup, che traversa rapidamente la hall dell’albergo «dando l’impressione d’inseguire il monocolo che volteggiava davanti a lui come una farfalla». La Juventus del prossimo futuro, che sia già stasera contro i giallorossi, o quello fra dieci giorni della finale della coppa nazionale, deve tornare a saper vestire l’abito con il quale è nata, per tornare ad essere vincente con naturalezza, temuta e rispettata da qualsiasi squadra avversaria, per riappropriarsi di quell’anima che da tempo è stata smarrita.

Qualcuno potrà obiettare che l’abito non fa il monaco e che si può essere vincenti ugualmente; a costoro risponderei che solo Charlot, il sublime vagabondo in tight, riuscì nell’impresa di “andare oltre”. Pochi potevano rivaleggiare con la straziata eleganza di quella lacera silhouette. La bombetta aveva più ammaccature e buchi che feltro, le maniche della camicia potevano placidamente separarsi dal busto, i pantaloni a righe afflosciarsi affranti. L'inesorabile bufera del progresso gli aveva stracciato la marsina, ma il piccolo dandy dai guanti bucati, fumando un mozzicone di sigaro, continuava a mulinare con civetteria la sua canna da passeggio e a far saltellare in modo nobile e ammiccante i suoi baffi a spazzolino.

Ma Charlot è poesia e la poesia ha un’anima sconfinata, vince su tutto, anche sul ridicolo.

Roberto De Frede